DIRITTI D'AUTORE

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martedì 29 gennaio 2008

LA CORAGGIOSA DENUNCIA DI UNA VERA CINESE

Ho letto questo bellissimo libro già qualche anno fa nell'edizione economica della Tea 2, corredato di foto autentiche della nonna, dei genitori e dell'autrice stessa; e non vi dico come mi ha lasciato esterrefatta alla fine.
Sapevo già molte cose sulla dittatura maoista, gli omicidi e le deportazioni di massa, i campi di rieducazione e le autocritiche, oltre ad altre bestialità, ma di tutti i risvolti delle faccende interne alla Cina stessa non ne avevo neanche la più pallida idea!

LA NONNA
Cigni selvatici è la storia vera di tre donne, tre generazioni a confronto, a cominciare da quella della più anziana, la nonna dell'autrice, nata durante l'impero, nel 1909 (coi piedi fasciati, segno di distinzione rispetto alla plebe) e data come concubina, a 15 anni, dal padre, ad un "signore della guerra", in visita nella città della ragazza per motivi legati alla sua carica.
Dare una figlia come concubina ad un alto funzionario imperiale era, per la Cina di allora, quasi come darla in moglie, perchè la ragazza usciva dalla casa dei genitori con un corteo degno di una sposa per andare a vivere in una nuova casa, da sola, attendendo i favori del suo signore. E' proprio questo ciò che successe alla prima protagonista del libro, la quale, visitata dal suo signore a distanza di anni, riuscì a concepire una figlia che restò l'unica erede. Poco tempo dopo l'uomo espresse il desiderio di rivederla e di vedere la figlia a casa sua, nel nord della Cina, essendo in punto di morte.
La giovane madre, pur accontentandolo e vivendo per qualche tempo - dopo la morte di lui - in quella nuova casa, con la moglie e le altre concubine (era obbligata a vivere lì, essendo la madre dell'unica erede, se voleva vedere sua figlia ereditare qualcosa), un bel giorno organizzò la fuga, grazie ad alcuni servi, e tornò nella sua città e dai suoi genitori.
Era il 1932. Qualche tempo dopo, la giovane donna sposò il medico di famiglia, il dottor Xia, un vigoroso sessantacinquenne (lei ne aveva 25), scatenando un putiferio tra i figli e le nuore di lui, per cui, successivamente, la coppia decise di trasferirsi in un'altra città dove ricominciarono tutto da capo, allevando insieme la bambina.

LA MADRE
La vita della madre di Jung Chang non è stata meno facile, essendo nata dopo la caduta dell’Impero e durante le lotte dei Nazionalisti di Chang Kai Shek e i Comunisti di Mao, tanto più dopo il matrimonio con un devoto e zelante funzionario del nascente partito comunista.
Costantemente vittime di sospetti (come tutti d'altronde), durante la Rivoluzione Culturale i due coniugi furono addirittura deportati in un campo di rieducazione, soggiorno che alienerà per sempre la mente del padre dell'autrice e che segnerà indelebilmente il suo ricordo, da indurla a ripensare seriamente alle “verità” propagate dal Comunismo.

L'AUTRICE
Anche Jung Chang non avrà un destino molto diverso.
Allevata come "guardia rossa", durante la Rivoluzione Culturale, si oppose dapprima in modo velato alla dittatura maoista, poi sempre più apertamente. Finchè non sarà esiliata in un luogo sperduto ai piedi dell'Himalaya. Tutto ciò fino all'insperato pretesto per espatriare: una vacanza-studio, nel 1978, in Inghilterra da cui non fece più ritorno. Vive, infatti, ormai lì, stabilmente, sposata ad un sinologo britannico, insegnante universitario, e insegnante, essa stessa, presso la medesima università a Londra.

IL LIBRO
Cigni selvatici è una biografia agile e commovente, un coraggioso atto di denuncia da parte di una vera cinese, che apre gli occhi sul regime maoista e sulle assurdità esistenti come, ad es., la requisizione del metallo a tutte le famiglie per costruire armi e divenire, nel giro di pochi anni, una potenza mondiale; o le improbabili accuse della Rivoluzione Culturale.
Chi non ha ancora molta dimestichezza con la storia della Cina e volesse avvicinarsi perchè attratto, è bene che legga prima questo libro di facile e semplice comprensione. Poi, secondo la mia opinione, è il caso di procedere con autori come Yu Hua e la cino-belga Han Suyin, anch'essa in esilio e autrice di L'amore è una cosa meravigliosa, che affronta, in Finchè verrà il mattino, con un'aspra critica, le assurde e contraddittorie leggi del comunismo cinese, le quali pretendevano di controllare perfino la scelta del coniuge, se una persona manifestava l'intenzione di sposarsi. E in Cigni selvatici, di questo, se ne parla ampiamente, a proposito del matrimonio dei genitori di Jung Chang.
Altra autrice da tenere d'occhio su questo filone di esiliati e che in Italia non è molto conosciuta è Bette Bao Lord (Luna di Primavera, Voci di primavera e il Cuore di mezzo, unici suoi libri pubblicati in Italia), avvocatessa e, attualmente, ambasciatrice di un'associazione internazionale riguardante proprio gli immigrati.
Ma di questi autori citati avrò occasione di parlarne ancora.
A tutti, buona “entrata” nel mondo culturale cinese!

venerdì 25 gennaio 2008

LA CLINICA DELLA FORMAZIONE

Con questo post molto specifico intendo aprire un nuovo settore, tra le mie opinioni su questo blog, il quale post riguarda strettamente l’area di studio già svolto e che sto approfondendo, cioè la psicopedagogia, unita all’amatissima psicoanalisi.

Mi rendo conto che bisogna dare delucidazioni su questo tipo di teoria pedagogica, denominata Clinica della Formazione e nata presso l’Università degli Studi di Milano ad opera del Prof. Riccardo Massa, mancato nel 2000, e sviluppato, in team, con alcuni dei docenti che ho avuto occasione di conoscere, una delle quali, Maria Grazia Riva, è stata l’insegnante che mi ha seguito durante la tesi, proprio sulla Clinica della Formazione, e che ringrazio infinitamente, e pubblicamente, per la possibilità che mi ha dato di svolgere una tesi su un argomento ancora sperimentale. Ma, soprattutto, perché, grazie a questo tipo di studio, ho potuto definire meglio, anni dopo la laurea, la mia figura di insegnante, pur non avendo più potuto seguire quella corrente a causa del trasferimento in un’altra città. Questo tipo di studio mi è riuscito utilissimo quando ho cominciato ad insegnare nei primi corsi di Formazione Professionale per la Regione o col FSE, se non quando insegnavo italiano per stranieri, per non parlare di adesso che l’insegnamento è mio pane quotidiano.
E’ molto importante, infatti, aver avuto una buona figura di riferimento durante la carriera scolastica e io, per quanto sia ancora alle prime armi, ho avuto già tante di quelle soddisfazioni testimoniate dall’affetto di genitori e alunni con bigliettini affettuosi e vere e proprie lettere corredate di disegni e paroline ingenue, che mi invogliano solo e sempre a continuare per questa strada.

E quanto resta impresso il ricordo di un buon professore, come quello d’inglese che ebbi alle medie, se ha dimostrato la sua validità d’insegnante e di uomo nelle scolaresche che ha seguito nel corso della propria carriera! E’ grazie a lui se ho potuto fronteggiare un anno di insegnamento in otto classi con 200 bambini di età diverse, senza avere un granché di esperienza lavorativa. Ed è ancora grazie al radicamento, operatosi molto tempo fa, se ricordo benissimo le regole linguistiche e morfo-sintattiche di quella lingua e se ora la riesco a parlare in modo decente.
Per questo rivolgo un appello a tutti gli insegnanti che capiteranno in questo blog, di avere sempre a cuore la nostra professione, perché è importante e fondamentale per la crescita e lo sviluppo intellettivo-emotivo dei nostri alunni, di qualsiasi età essi siano. E se ci fossero degli insegnanti che vogliano mettersi in contatto, sarò ben disposta a dialogare con loro.

Mi scuseranno i non addetti ai lavori se ho trattatato un argomento molto specifico, ho cercato, per questo, di renderlo il più accessibile possibile, in modo da non appesantirlo troppo con riferimenti bibliografici e filosofici. Ma andiamo al dunque.

LA CLINICA DELLA FORMAZIONE
La Formazione è un percorso educativo il cui obiettivo è l’Apprendimento. Per attuare l’apprendimento abbiamo bisogno però di metterci a studiare, in qualche modo, per sostenerlo e consolidarlo. E la Formazione, con i suoi
1) Processi,
2) Progetti,
3) Interventi,

produce dei risultati, o cambiamenti, che scaturiscono proprio dall’obiettivo di produrre un apprendimento consapevole, cioè voluto e cercato, cioè razionale, come può essere un corso intrapreso di propria spontanea volontà (potrebbe essere anche il semplice corso di scuola guida, al fine di prendere la patente), ma non di scuola obbligatoria: questo è un altro tipo di formazione necessaria e riguardante i minori.

L’esigenza della Formazione si avverte quando si verifica un
1)Evento Scatenante.
Quando, ad esempio, accade qualcosa di molto evidente e che non si può fingere di ignorare, scatta la molla dell’esigenza di innovazione, di riforma, o di qualcosa che porti ad un netto miglioramento, quindi

2) si Identifica il Bisogno.
Si procede cioè all’individuazione del problema che si è manifestato e si razionalizza, nel migliore dei casi, per vedere dove è necessario il miglioramento o il cambiamento, di cui sopra.
Dopo di che si procede alla

3) Definizione del Problema.
E’ la vera e propria diagnosi per risolvere ogni caso. Questa farà scaturire una

4) Ipotesi di Soluzione.
Vengono, a questo punto, formulate delle idee per risolvere il caso. Esse possono essere in medicina, ad es., i farmaci che il medico dà al paziente dopo aver ascoltato i sintomi del suo malessere per guarirlo.
Da qui scatta la vera e propria

5) Domanda di Formazione.
E’ il momento dalla vera presa di coscienza che fa sentire l’esigenza di un intervento superiore e specifico per ogni caso.

Se perciò la Formazione, in generale, indica qualunque pratica consapevole e intenzionale per l’Apprendimento, la Clinica della Formazione intende cogliere il significato latente sempre presente nel mondo stesso della Formazione organizzata. Perché la Clinica della Formazione attinge direttamente dal mondo della vita (Fenomenologia di Husserl), con la sua Materialità Educativa, cioè le dinamiche esterne e interne, similmente ad una reazione chimica, rendono possibile il processo formativo, il quale è composto da tre elementi (entriamo, qui, nello specifico campo della Fenomenologia husserliana applicata alla pedagogia):

1) Mondo Vitale
2)
Azione Intenzionale
3) Progettazione Tecnica

Per questo motivo la Clinica della Formazione vuole proporsi come Mediazione Educativa tra il mondo della vita (Mondo Vitale) e quello della Formazione (Azione Intenzionale).
Questa mediazione è detta Latenza Pedagogica.


IL METODO CLINICO
Il Metodo Clinico si fonda su due campi connessi alla Pedagogia: la Medicina e la Psicologia, o meglio, la Psicoanalisi.

Perché il termine Clinica?
Perché lo Sguardo Clinico è uno sguardo empirico, fondato cioè sull’esperienza. Infatti, il termine Clinica deriva dal greco klino, cioè chinarsi, curvarsi sul malato che giace sul letto, ed è proprio ciò che fa il medico quando si china, con intento conoscitivo, sul malato per visitarlo. E, in una situazione del genere, non ci si può semplicemente mettere in una posizione frontale, perché bisogna entrare nelle situazioni che ci hanno sottoposto delle precise richieste per capire i processi e le dinamiche senza classificarle o etichettarle. Significa, cioè, mettersi nei panni dell’altro e considerare normali e naturali anche il malessere, il disagio e la malattia. Così l’atteggiamento clinico, sempre in evoluzione, quindi di conoscenza, divenuto atteggiamento di ricerca, oltrepasserà un sapere che viene calato dall’alto, come il medico che si china per creare una situazione di Ricerca Congiunta, che si fa insieme tra Formatore e Formando, scoprendo e imparando insieme.
E’ un percorso a due o più persone. E’ possibile così esplorare aspetti di margine di possibili transizioni legate alla vita vissuta da ciascuno. E’ appropriata, perciò, l’immagine che dà Angelo Franza (appartenente al team del Prof. Massa), della Formazione come costruzione e progettazione di essa stessa.

Per quanto riguarda la presenza della Psicoanalisi, - aspetto che prediligo, perché rende vera e molto più efficace questa teoria pedagogica -, in questa proposta di Formazione, bisogna chiarire che non c’è qui la pretesa di fare gli psicologi o gli psicoanalisti, perchè, prima di tutto non c’è la preparazione adatta, e poi perché il sapere psicoanalitico non viene utilizzato per interpretare il mondo interno dei soggetti, ma viene utilizzato come schema di analisi e decodificazione di elementi fantasmatici e rappresentazionali.
Gli elementi fantasmatici e rappresentazionali non sono altro che i sogni che fa l’inconscio, in particolare e, specificamente, nel campo psicoanalitico, sono quelle fantasie primitive, cioè avute sin da bambini, che portano poi l’individuo a compiere certe scelte nella vita o ad adottare altri comportamenti. Non è il caso di entrare nello specifico, in un altro momento potrei anche proporre una spiegazione più esauriente della fantasmatica affettiva, per il momento è meglio limitarsi a questo. Per farla breve, però, è importante chiarire che questa fantasmatica si crea sin dalla vita intrauterina e investe l’infanzia con processi molto importanti per lo sviluppo dell’identità personale e sessuale, è, tanto per intenderci, il famoso complesso di Edipo o di Elettra freudiani
Ma andiamo avanti e torniamo alla Clinica della Formazione.

Ho spiegato, prima, in che modo viene presa in prestito la psicoanalisi. La Clinica della Formazione, oltre a basarsi sullo schema di analisi e decodificazione della pratica psicoanalitica, prevede, esattamente come la precedente, un setting specifico e variabile ad ogni situazione in cui si deve entrare per conoscere i particolari e i processi dinamici che vogliono una risposta.
Il setting o situazione è uno specifico spazio simbolico, se non fisico (come l’aula o una stanza) in cui poter svolgere un’azione.
Questo contesto si costruisce da sé col gioco delle relazioni e dei rapporti tra gli attori della situazione e possiede regole e ruoli che si possono modificare facilmente.
L’atteggiamento clinico è, perciò, attento allo spazio istituzionale, a quello simbolico del gioco relazionale e del suo contesto.
Per questo nel metodo clinico sono presenti la

1) Dimensione Esperienziale e quella
2) Sperimentale (di ricerca).
E’ un processo circolare di teoria-prassi, cioè un continuo confronto della ricerca con l’esperienza, nel suo processo evolutivo. (Ermeneutica).

C’è, infine, un ultimo aspetto fondamentale legato alla
3) Dimensione Linguistica.
Non si possono conoscere, infatti, i propri bisogni se non attraverso la comunicazione linguistica.
La Clinica della Formazione lavora proprio su ciò che si dice, sul modo in cui vengono esposti i problemi, sul modo di esprimersi e sul linguaggio usato.

In Clinica della Formazione i formandi devono produrre dei testi scritti, basandosi molto sulle proprie esperienze personali.
In seguito, si fa un’ Interpretazione per vedere come si parla della Formazione, cosa si pensa, come la si definisce.
In questi scritti c’è una dimensione nascosta che rinvia all’idea di latenza della formazione, sono cioè gli elementi che, nel racconto, vengono lasciati in ombra durante la Formazione.
La latenza della formazione si riferisce ad aspetti della formazione meno percepiti e più impliciti. Infatti, la radice etimologica della parola lat rinvia all’idea di rifugio (latebra, in latino) o luogo protetto e appartato, come una nicchia, un proprio spazio interno, nel quale si possono decodificare e decostruire le rappresentazioni mentali e i vissuti affettivi di esperienze della circostanza per capire i meccanismi processuali a cui danno luogo, per poi interpretarli.


Ecco qui uno schema semplificato di ciò che si intende per Formazione:

I SOGGETTI DELLA FORMAZIONE
:

COMMITTENTE

Formatore - Partecipanti

1) Dimensione Esperienziale (riguarda l’esperienza di tutti i giorni)
2) Dimensione Sperimentale (è la vera e propria ricerca, che si può fare anche con elementi che esulano lo specifico psicoanalitico)
3) Dimensione Linguistica (legata per esigenze, al linguaggio parlato, se no non si può comunicare).
E’ un processo circolare (ermeneutico) di teoria-prassi.

Mi fermo qui perché ho detto già troppo e mi rendo conto che non posso approfondirlo più di tanto: risulterebbe pedante e noioso.
A chi, invece, volesse dei riferimenti bibliografici più specifici, mi scriva pure nel box dei commenti.

Bibliografia:
- La Clinica della Formazione. Un’esperienza di ricerca (1993) a cura di Riccardo Massa, Armando, Roma
- La Clinica della Formazione come pratica di consulenza e supervisione (R. Massa), in Sottobanco (R. Massa-R. Cerioli) 1999, IRRSAE Lombardia, Angeli, Milano.
Maria Grazia Riva: L’abuso educativo, Unicopli, (1995), Milano
- Studio clinico sulla formazione (2000), Angeli, Milano
- Giochi di ruolo nella formazione, in Sottobanco, (a cura di Massa- Cerioli), IRRSAE Lombardia, Angeli, Milano.
- La mia tesi di laurea.

sabato 12 gennaio 2008

LA REGINA E LO ZINGARO

Recensione e confronto critico tra i romanzi "L’amante della regina vergine" (Philippa Gregory) e "La regina e lo zingaro" (Constance Heaven)
Preambolo
L’amante della regina vergine è il secondo romanzo di una scrittrice ancora poco nota in Italia, Philippa Gregory, la stessa che ha già scritto L'altra donna del re, edito, nel 2006, dalla Sperling & Kupfer.
Se quest'ultimo, però, ha per protagonisti Enrico VIII, le sue prime due mogli e una delle sue amanti, Maria Bolena, sorella di Anna, il romanzo che sto per recensire ha, invece, per protagonisti la figlia minore, e più somigliante al grande re, Elisabetta I, il suo principale favorito Robert Dudley ed Amy Robsart, moglie di quest'ultimo.
Prenderò in esame un altro romanzo molto simile a questo, da cui ho preso in prestito il titolo per questo articolo: La regina e lo zingaro, scritto trenta anni fa, nel 1977 da Constance Heaven e pubblicato in Italia per i tipi della Mondadori, nella collana degli Oscar, nel 1983 e, da ciò che mi risulta, finora mai più ristampato. Un bel romanzo, senza dubbio, che non indulge troppo sugli aspetti sentimentali della vicenda, ma equilibra egregiamente rispetto ai primi, anche quelli storico-politici.
Ormai è manifesto il mio amore per la storia, soprattutto quella dei Tudor, perla del pre e del rinascimento europeo. Se ho, pertanto, voluto scrivere sul secondo libro della Gregory, è anche perché questa autrice ha un po' distorto il personaggio della grande sovrana, rispetto a come invece ci è stato tramandato dalla storia. Ecco perché, cogliendo la palla al balzo, ho rispolverato il romanzo della Heaven, a lungo sopito nella libreria della mia casa paterna, il quale, pur essendo quasi un parallelo di questo della Gregory, propone un'altra versione della vicenda, direi, con un finale che va quasi in senso opposto, fatto storico realmente accaduto e risaputo da ormai oltre cinque secoli.
Anche la descrizione caratteriale dei personaggi non coincide con quella dell'altra scrittrice. Poi ne spiegherò il perché.
Intanto diamo inizio al confronto.

L’amante della regina vergine: i personaggi

Il romanzo si apre con l'incoronazione di Elisabetta, alla morte della sorellastra Maria. Siamo nel novembre 1558 e l'Inghilterra è in un tripudio di gioia: ha finalmente avuto la sua regina, l'erede incontestata (dal popolo) del grande re Enrico. Ma lady Amy Robsart, bella e giovane moglie di lord Robert Dudley, non lo è. Ella non è felice per quella proclamazione. Tutt' altro! E' proprio grazie a quella festa che suo marito non è con lei. A causa di quella donna, Robert non la calcolava più, ignorandola ormai apertamente. L'augurio che, pertanto, Amy rivolgeva mentalmente alla nuova regina era che Dio la stroncasse in tutto. Per averle usurpato l'affetto del marito, per aver riproclamato l'eresia e cancellato la vera fede restaurata dalla povera regina Maria, così cagionevole di salute, che, alla fine, aveva dovuto soccombere.

E' comprensibile, da queste poche righe, come i personaggi di questa 'farsa' si comportino. Analizziamoli, quindi, uno per uno e iniziamo proprio da lui, l'oggetto della contesa tra le due donne, lord Robert Dudley.
E' nel 1549 che Robert vede, per la prima volta Amy Robsart, durante un sopralluogo che stava effettuando il padre, lord John Dudley, conte di Warwick, a Syderstone, dall'Alto Sceriffo del Norfolk e Suffolk, sir John Robsart, appunto, padre di Amy. Robert ha quasi 17 anni ed è il terzo figlio maschio del potente e ambiziosissimo lord Warwick. Siamo negli anni del regno del re bambino, Edoardo VI Tudor, figlio di Enrico VIII.
Suo nonno, Edmund Dudley, era stato il consigliere privato di Enrico VII, ma a causa della severità adottata in fatto di politica finanziaria, si era attirato una vasta impopolarità che lo aveva condotto al patibolo durante i primi anni del regno di Enrico VIII.
Il figlio, lord John, padre di Robert, riuscì, in seguito, a conquistare l'amicizia di re Enrico, combattendo contro Francesi e Scozzesi, dimostrandosi un militare dal talento inestimabile e preziosissimo.
Protestante sin dall'inizio della Riforma, con l'avvento di Edoardo al trono, nel 1545, lord John compì ulteriori progressi nella sua carriera, fino a raggiungere il secondo posto nella gerarchia politica inglese. Grazie a lui, e alla sua smisurata ambizione, giunse perfino a cospirare contro la famiglia Seymour, parente del re, da parte di madre (Jane Seymour era la terza moglie di Enrico VIII e madre di Edoardo VI), preparando la rovina dello zio del re, lord Somerset, conclusosi con la sua decapitazione nel 1552, anche se esistono versioni diverse su questa vicend
Grazie allo strapotere di cui godeva e al forte ascendente che esercitava sul giovane re, lord Warwick persuase il sovrano a cambiare la linea ereditaria al trono, diversamente da come l'aveva progettata Enrico VIII. Da eredi al trono le sorelle maggiori del re, Maria (figlia di Caterina d'Aragona, prima moglie di re Enrico) ed Elisabetta (figlia di Anna Bolena, seconda moglie dello stesso sovrano), ritornavano, nei piani di Warwick, ad essere delle neglette e illegittime principesse, a favore di Jane Grey, pronipote del defunto re e moglie di suo figlio Guildford.
Lord John però non aveva fatto i conti col tempo e col destino che spettava al giovane re.
Nel 1553 Edoardo VI morì e Dudley, convinto sempre più che avrebbe messo sul trono d'Inghilterra la fragile nuora e suo figlio, quale principe consorte, ostacolò, in tutti i modi, l'arrivo della legittima erede, la principessa Maria.
Far salire al trono la spagnola Maria, per l'Inghilterra significava, però, anche tornare al cattolicesimo e sotto l'egida della potenza papale e, questo non doveva accadere all'anglicanissimo lord Warwick, diventato, nel frattempo, anche duca di Northumberland.
Contrastare l'ascesa al trono di Maria però si rivelò subito un'impresa fallimentare e, nell'agosto di quello stesso anno, il 1553, il padre di Robert fu condannato a morte e giustiziato insieme a figlio e nuora.

Ma torniamo a Robert.
Aveva conosciuto Amy per caso, abbiamo detto, accompagnando il padre nel suo abituale giro di controllo, essendo tenente generale delle forze armate e, grazie alla sua avvenenza, aveva subito attirato l'attenzione della coetanea figlia di sir John Robsart.
Robert era un giovane alto come suo padre e si muoveva con una grazia genuina. Aveva folti capelli ricciuti; una delicata curva gli formava l'arco sopraccigliare, il naso corto e arrogante e una bella bocca, uniti ad un incarnato olivastro, lo rendevano irresistibile agli occhi di tutte le giovani donne. Ed Amy non faceva eccezione. Sarà, anzi, proprio questo colorito ad incantare, più tardi, Elisabetta, la quale, avvezza a dar soprannomi, lo chiamerà 'the gipsy', 'lo zingaro', con scandalo di tutta la corte e di tutto il mondo che gravitava, allora, intorno all'Inghilterra.
Quando vide Amy, Robert si trovava in uno dei suoi rari momenti di pura felicità, perché nelle ultime due settimane aveva cavalcato al fianco del padre e partecipato alla sua prima campagna. Perfino il padre, piuttosto avaro di lodi, si era complimentato con lui per il suo comportamento. E Robert teneva tanto alle approvazioni paterne, perché ammirava incondizionatamente il suo brillante genitore. Era, inoltre, un ragazzo orgoglioso della propria figura atletica e snella, che conservava mangiando e bevendo con parsimonia.
Delle alle altre due protagoniste di entrambi i romanzi, Robert aveva conosciuto prima Elisabetta, quando era 'la bastarda', 'la figlia della strega'. Avevano passato del tempo insieme a studiare, ad esercitarsi con le danze, ma mai era sorto il sospetto, in entrambi, di ciò che sarebbe potuto essere un giorno. Per questo, la sera che egli udì per la prima volta cantare Amy, a Syderstone, ne restò affascinato e ammaliato dalla dolcezza della voce, oltre che dalla grazia innocente della ragazza, poiché lui stesso era un buon musico.
Poco tempo dopo i due ragazzi convolarono a nozze, sfidando il tempo, l'età, le invidie di tanti che avevano cercato di dissuaderli e, soprattutto, le differenze degli ambienti di provenienza: perché Robert apparteneva alla corte, alla vita gaia e spensierata che lì si conduceva; mentre Amy apparteneva alla media aristocrazia di campagna, la quale viveva sempre appartata e veniva cresciuta ed educata con sani e robusti principi.
La graziosa Amy era figlia unica di sir John Robsart e della moglie, la vedova Appleyard con già tre figli al seguito, due femmine e un maschio, tra i quali risultano veramente antipatici, in entrambi i romanzi, gli ultimi due fratellastri di Amy, Frances e John, sempre pronti a sfruttare la situazione in qualsiasi momento e sempre disapprovanti ogni minima azione della piccola Amy.
Era vero che Amy aveva la testa fra le nuvole, il più delle volte, ma era pur vero che non era affatto stupida e, al momento opportuno, sapeva prendere in mano le redini della situazione.
Tale era Amy Robsart, dolce e gentile, dalla bellezza delicata, piacevole e mai appariscente: la classica ragazza acqua e sapone, semplice e carina, tanto per intenderci.
Il motivo per cui Robert Dudley sia stato attratto da questa semplice bellezza è sicuramente risalibile alla musica, amata da entrambi, dalla magia creatasi la sera che si conobbero e dalla smania che colpisce tutti gli adolescenti, di voler bruciare le tappe e crescere in fretta a tutti i costi, per dimostrare agli altri che si è adulti ormai.
Era la sua virilità appena scoperta a farlo agire con sicurezza, forse, più che la bellezza di Amy. Di lei Robert pensò, all'inizio, che avesse gli occhi bruni e limpidi della sua affezionata cagna Babette, quando lo supplicava di accarezzarla. E i suoi capelli, castano rossiccio, erano simili al manto di uno scoiattolo. Avrebbe tanto voluto posare le sue labbra su quelle di lei, dolcemente socchiuse. E il suo nome? Non voleva dire Aimèe…amata?
Tutto, quella famosa sera, cospirava a loro favore. Ma Scoiattolino, come lui la soprannominò durante gli anni felici, prima dell' 'abbandono' per la più potente Elisabetta, lo tormenterà per sempre con questa frase: "Pioveva quella sera, una leggera pioggia settembrina, quando arrivasti a casa di mio padre, e io non immaginai - come avrei potuto? - che la morte era arrivata da me sotto le incantevoli sembianze dell'amore…" (La Regina e Lo Zingaro, p.15).

Con Elisabetta, Robert, sin da ragazzini, ad Hampton Court, aveva studiato insieme sotto la guida dell'ultima moglie di re Enrico, Catherine Parr. Elisabetta, già allora pareva un demonio e litigava con lui come cane e gatto, aspettando Mary, sua sorella che faceva da paciere. Non aveva più pensato a lei da molto tempo…
Alcuni anni più tardi, dopo il matrimonio con Amy e dopo la morte del giovane re, a causa dell'evolversi degli eventi, cioè l'incoronazione di Maria I e il tradimento di lord Warwick a favore di Jane Grey, che si concluderà, come ho già detto, con la decapitazione dei protagonisti del golpe, lord Robert resterà rinchiuso nella Torre dei traditori (a White Tower), lontano da Amy e avrà modo di rivedere la principessa Elisabetta, sorella reietta della sovrana in carica, che l'aveva fatta lì imprigionare, perché considerata pericolosa a causa delle agitazioni che serpeggiavano tra i protestanti e a cui, spesso, non erano estranei nemmeno alcuni cattolici.
L'idillio tra Robert ed Elisabetta iniziò proprio tra le mura tetre della prigione, quando entrambi, ambiziosi e iperattivi, si sentivano schiacciati e resi impotenti dall'ozio forzato; per cui, quando arrivava il momento di prendere aria in cortile, si scambiavano delle fugaci occhiate d'intesa e delle furtive parole di solidarietà, tra cui la promessa di Robert, il giorno che Elisabetta fosse divenuta regina, di essere il suo più fedele suddito e servo. Egli lo sentiva già con certezza nel cuore che, a breve, quella ragazza sottile, dalle lunghe ed eleganti dita, quella creatura intelligente e colta, coi capelli rossi dei Tudor, lasciati sciolti sulle spalle, ritratto al femminile di re Enrico, sarebbe un giorno salita al trono e diventata regina, la sua regina.
Grazie al matrimonio di Maria con Filippo di Spagna, figlio dell'Imperatore Carlo V, però, le cose cambiarono un po': tra i tanti prigionieri protestanti rinchiusi nella Torre, Elisabetta sarà tra i primi prescelti, insieme a Robert, (che porterà però con sé, per ricordo, una subdola febbre che lo tormenterà tutta la vita - e sempre nei momenti meno opportuni -, acquisita a causa delle frequenti epidemie che scoppiavano nella prigione, soprattutto quando era troppo affollata) ad essere liberata.
Dopo la liberazione Robert, pur vivendo ancora con Amy, prenderà coscienza della situazione politica del momento e di quella personale: vivere in campagna e amministrare le terre (lavoro che svolse bene però) di sir John Robsart, suo suocero, non era il massimo, né si confaceva alla sua indole ambiziosa e abituata al lusso della corte.
Con un fiuto più unico che raro unito ad una forte inclinazione per il rischio, Robert, qualche anno dopo la morte del suocero, vendette alcuni appezzamenti di terreno portati in dote da Amy, per dare del denaro ad Elisabetta e aiutare la sua causa affinché venisse rovesciata l'acida sorellastra Maria, poi soprannominata 'la Sanguinaria', a causa dei numerosissimi roghi perpetuati a danno dei protestanti immolati in nome di Dio e per la salvezza della vera fede, oltre che per un assurdo voto: raddoppiare i roghi degli eretici, pur di avere un figlio da porre sul trono per salvare l'Inghilterra.

Nel frattempo la scena del teatro politico era cambiata. Filippo non viveva più in Inghilterra, ma in Spagna, essendo succeduto al padre CarloV, ed era diventato Filippo II di Spagna. Alla guida dell'Impero, invece, era succeduto all'anziano imperatore, Filippo d'Asburgo, fratello del primo.
Ad Elisabetta, che viveva a corte, fu imposto, dalla sorella, un matrimonio combinato dal marito. Lo sposo candidato era un amico e alleato di Filippo, il duca di Savoia, Emanuele Filiberto, il quale era, si, un buon soldato, con una certa vistosa bellezza, ma godeva della fama di bevitore e gaudente che, in compagnia di Filippo, appunto, era solito frequentare certi posti in modo piuttosto assiduo, dai più noti bordelli di Bruxelles, a certe aristocratiche camere da letto.
A questo matrimonio Elisabetta oppose un fermo rifiuto. Non sarebbe andata in un paese straniero: sentiva, dentro di sé, che il suo destino si sarebbe svolto in Inghilterra e per l'Inghilterra. Non le era ancora chiaro se la sua vita era il caso di legarla a qualcuno. Ma se il prezzo da pagare era quello che Maria viveva adesso, con un marito lontano, che la trascurava per guidare il paese di cui era erede al trono e sovrano, allora no, preferiva piuttosto non sposarsi mai e tenere l'Inghilterra tutta per sé.
Questa imposizione matrimoniale, da parte di Maria, favorì, invece che allontanare il nascente idillio tra la sorellastra e lord Robert; anche se Elisabetta, sconvolta in principio, voleva scappare all'estero o in qualsiasi altro posto, pur di non sposare Emanuele Filiberto o un altro sconosciuto senza amore. E, secondo certe fonti, fu proprio Robert Dudley a impedire questa impulsiva fuga della principessa.
Anni dopo, quando finalmente Elisabetta salì al trono, alla morte di Maria, nel 1558, a 25 anni, veniva considerata una delle più appetibili principesse d'Europa da principi, preferibilmente secondogeniti o che, comunque erano ansiosi di mettere le mani sul regno di Enrico VIII e annetterlo, trasformandolo a proprio piacimento, in una provincia satellite del proprio regno, se eredi al trono.
Naturalmente, tutti i pretendenti, compreso il cognato Filippo II, si premunivano già quando avanzavano la loro proposta, anticipando che la religione da professare sarebbe stata solo e unicamente il cattolicesimo. Al che Elisabetta fece sempre orecchie da mercante, grazie alla sua spregiudicata superiorità mentale e culturale: seppe, sin da subito, cosa fare per risollevare le sorti del suo paese, dopo il disastroso regno di Maria, che aveva messo in ginocchio l'economia statale.
L'11 novembre c'era stato l'ultimo rogo dei martiri protestanti, voluto da Maria, spirata il 17 e il cancelliere di stato aveva annotato solennemente, alla proclamazione della nuova regina: "Sei giorni dopo che questi furono bruciati a morte, Dio ci mandò la nostra Elisabetta".
All'annuncio di essere la nuova sovrana, la principessa era rimasta per un attimo immobile e incredula, poi si era inginocchiata, quasi senza accorgersene, mentre dalle labbra lasciava uscire le parole del Salmo CXVIII, per rendere finalmente grazie a Dio.
Robert Dudley naturalmente si lasciò invadere da una folle esultanza e si accinse a raggiungere la sua regina per darle un ulteriore prezioso dono: una splendida giumenta bianca che Elisabetta cavalcherà il giorno della sua incoronazione, sotto gli occhi di tutto il popolo esultante, quasi al fianco del suo 'zingaro', che montava, per contrasto, un focoso stallone nero.
Tutti erano in preda ad una gioia senza eguali. Tutti tranne una giovane e graziosa donna, lady Amy Dudley, che sapeva e sentiva che l'altra le stava portando via il marito.
Alla povera Amy, in quello stesso periodo, stava accadendo qualcosa. Da un po' di tempo a quella parte era iniziato a dolerle il petto. Si sentiva molto più debole; le girava la testa ed era sempre meno capace di mantenere la calma, soprattutto di fronte alle dicerie che, oramai, erano il passatempo preferito degli inglesi, dalla corte alla più sperduta e remota campagna: il rapporto di amicizia speciale della giovane regina col suo Maestro dei Cavalli, lord Dudley, conosciuto come il favorito della nuova sovrana.
Pur negando l'evidenza, la dolce Amy faceva buon viso a cattivo gioco, scusando spesso l'assenza del suo affascinante marito, non certo dovuta a trascuratezza, ma unicamente per la voglia di riscattarsi da un passato infamante come quello che lo screditava quale nipote e figlio di traditori.


Le case
Più volte Amy fu anche costretta a cambiar casa, perché Robert le propinava la scusa che non si addiceva alla moglie di un lord della corte reale, finchè non approdò a Cumnor Place, quando lei ormai sapeva già, per sua stessa confessione, che era innamorato di Elisabetta e che pensava al divorzio. Ahi, se solo la regina degli inglesi e del suo cuore avesse alzato un dito! Avrebbe potuto risolvere senza tanti problemi lo scioglimento matrimoniale e lui sarebbe accorso, certo che significava qualcosa anche per lei.

Cumnor Place, un tempo, era stata un'abbazia, infatti, al pian terreno era dotata di alti soffitti a volta, tanto per ricordare a tutti l'aria monastica che tirava un tempo. La costruzione girava attorno ad un cortile di pietra, mentre l'ala dove avrebbe alloggiato Amy dava sul terrazzo e sulla grande distesa del parco, che permetteva di godere una splendida vista sugli alberi e sul lago. Pur trovandola, tutto sommato, piacevole Amy continuava a sentire ancora un leggero senso di disagio, anche dopo aver disfatto i bagagli e sistemato le proprie cose nelle varie stanze. Non riusciva a dare una spiegazione a questa sua inquietudine, pur condividendo la grande dimora con altre persone cordiali e accoglienti, le quali non le avrebbero certo fatto mancare la compagnia e l' aiuto.
Era marzo e finalmente Amy aveva acconsentito a farsi visitare dal dottor Julio, un importante medico italiano che godeva perfino della fiducia di sua maestà. Il dottor Julio era un medico serio e qualificato, ma godeva anche della fama di buon conoscitore di veleni. Alcuni medici, da quando Amy aveva scoperto quel nodulo sotto il seno, si erano rifiutati di visitarla per paura di essere incriminati dalla sua eventuale morte, poiché correva anche voce che Robert Dudley volesse far avvelenare la moglie per sposare la regina e una visita del dottor Julio era proprio la ciliegina sulla torta, per alimentare maggiormente i pettegolezzi su cui ricamare.
Stando a ciò che entrambi i romanzi di Philippa Gregory e di Constance Heaven riportano, il dottor Julio non collaborò alla morte di Amy Robsart, perché il tipo di male da cui era affetta la giovane donna, portava all'assottigliamento delle ossa del collo ed erano già molte le giovani donne che il medico italiano aveva visto morire, il più delle volte, non in modo naturale, ma a causa di una caduta accidentale. Chi per una caduta da cavallo, cosa che, in genere, provocava solo qualche contusione, finendo, invece, per morire col collo spezzato; chi per un semplice ruzzolone giù da qualche gradino…E lady Dudley presentava tutte queste caratteristiche, per il dottor Julio, il quale si ripromise di fare il possibile, se non per salvarla, almeno per alleviarle il dolore.
Amy, dal canto suo, non volendo dare ascolto alle chiacchiere che circolavano, né fidandosi più del marito, depose le fiale che il medico le aveva fatto recapitare, in fondo ad una cassapanca sotto la sua biancheria senza dire niente a nessuno, sospettando, suo malgrado, in fondo al cuore Robert, in quel periodo in giro con la regina per un viaggio nel Norfolk e a Oxford, da dove avrebbero fatto visita ad Henry Norris e a sua moglie a Rycote, amici di Elisabetta già dai tempi bui passati come prigioniera a Woodstock.
Fatto sta, comunque, che Amy approfittando della fiera di Abingdon preferì restar sola, rassicurando tutti che lei non si sentiva troppo bene e per la sua salute era meglio che fosse rimasta a casa, per cui esonerò tutti dal farle compagnia per accudirla, qualora avesse avuto bisogno.
Partita la domenica mattina di buon umore, l'allegra compagnia di gentildonne, a cui si era unita anche Jennet, la serva di Amy, la giovane era rimasta finalmente sola…

Più tardi il corpo di Lady Dudley fu rinvenuto da due servi rientrati per primi. Amy Robsart giaceva ai piedi della ripida scaletta di pietra (di sei-sette gradini), che scendeva al pian terreno, formando una curva…con l'osso del collo spezzato, la gonna che copriva compostamente le gambe e il cappuccio ben sistemato sulla testa, simile ad una bambina graziosamente addormentata.


Le due tesi
E' arcinoto, ormai, che la maggior parte dei sospetti ricadde sul marito di Amy, lord Robert Dudley, sul quale si vociferava che volesse in qualche modo togliere di mezzo la moglie per sposare la regina.
Fatalità? Suicidio? Assassinio? Ancora oggi, a distanza di oltre 500 anni, questo avvenimento è ancora avvolto nel più fitto mistero.
In ciascun romanzo si fa una congettura e si propone una tesi tra le quali la più verosimile, a mio avviso, risulta essere più credibilmente probabile quella della Gregory, contenuta in L'AMANTE DELLA REGINA VERGINE, a causa di alcune circostanze ben analizzate nel libro, che l'autrice stessa definisce "resoconto romanzato".

Philippa Gregory ipotizza che Amy Robsart fu uccisa da qualche mandante ad opera di Elisabetta e del suo fidatissimo consigliere William Cecil, il quale, come tanti a corte, non vedeva di buon occhio l'influenza che Dudley aveva sulla regina, e la possibilità che questi potesse diventare re.
Ma causa di malcontento era soprattutto lo smisurato potere che il giovane favorito stava acquisendo presso la sovrana, a discapito di molti altri ambiziosi cortigiani che aspiravano a una qualunque promozione, pur di farsi notare. E questo Dudley, da come viene descritto dalla scrittrice, era piuttosto esigente e manipolava a proprio piacimento una giovane e ingenua regina che, tutto sembra, fuori che la scaltra, intelligente e colta Elisabetta che la storia ci ha tramandato.
Dalla penna della Gregory la figura di Elisabetta viene fuori come quella una donnetta piagnucolante e sognatrice, che non pensa altro che all'amore e al suo amante; a soddisfare la vanità femminile con lussuosi vestiti, contornandosi, contemporaneamente, di artisti e musici che la tenevano allegra e spensieratamente lontana dalla difficile realtà politica appena ereditata dopo il disastroso regno di Maria, lasciando l'Inghilterra alla mercè di sé stessa e nelle mani di uomini più o meno in gamba come William Cecil.

Ne La regina e lo zingaro, l'altro romanzo analizzato, Constance Heaven, invece, ci restituisce un'immagine di Elisabetta ancor più precisa e fedele di quella che ci ha tramandato la storia. E' l'immagine di una donna forte, astuta e intelligente, completamente fuori dagli schemi dell'epoca. Troviamo, infatti, un' Elisabetta fragile, ma pur consapevole del fatto che l'Inghilterra, ereditata alla morte della sorella, è una nazione politicamente ed economicamente provata, messa ulteriormente in ginocchio dall' inutile guerra con la Francia, che aveva solo prosciugato le casse dello stato e portato via l'ultimo dei sogni rimasti in terra francese, Calais, col suo prezioso approdo, ingresso in una nazione che continuerà ad essere nemica storica dell'Inghilterra.

Se fin qui la Heaven è stata molto più credibile della Gregory riguardo alla figura della sovrana inglese, lo è meno, a mio avviso, riguardo alla morte di Amy Robsart.
Pur seguendo un rigore storico ineccepibile rispetto alla Gregory, la Heaven imputa la morte della giovane donna ad un suicidio volontario, per non esser più d'intralcio all'amore del marito, ormai definitivamente assente e perso per una rivale ben più potente e temibile.
L'autrice propone questa tesi in base alle "accuse non dimostrate…contro Robert nell'infamante Leyester's Commonwealth; su una non comprovata accusa mossagli dal fratellastro di Amy, John Appleyard, sette anni dopo la morte di lei, e su indagini mediche più recenti" (p. 281).

Entrambe le tesi dei due romanzi scagionano Dudley.
La Gregory sostiene che il giovane favorito, essendo malvisto da Cecil, il consigliere di Elisabetta, era stato vittima di un raggiro da parte sua, con il beneplacito dell'amata, che si era lasciata finalmente convincere a non farsi più dominare da Robert e dai suoi sentimenti per lui. Ma sappiamo, dalle fonti dell'epoca, che Elisabetta era tutto fuorché una testa vuota e che non aveva certo bisogno di un marito per governare e prendere decisioni: lo dimostra il palese fatto che non intese mai sposarsi. Il suo sposo, sosteneva, era il trono d'Inghilterra e i suoi figli, il popolo che l'adorava. E questo la Heaven, lo descrive assai bene, pur imputando l'intenzione di uccidere la moglie di Dudley a qualche acerrimo nemico del gentiluomo, al fine di infangare la sua figura e di ostacolarne l'ascesa al trono. Che poi Amy Robsart sia morta volontariamente o meno, questa, ripeto, è una congettura dell'autrice.


Conclusioni
E la storia tra Robert ed Elisabetta come andò a finire?
Entrambe le autrici rispondono a questo interrogativo in due modi diversi.
La Heaven lo fa inserendo un epilogo, alla fine del romanzo, datato 1588.
Elisabetta è barricata in camera sua per condividere unicamente con sé stessa, il dolore della perdita dell' unico uomo che avesse mai amato. Dopo più di trent'anni e i tre matrimoni di lui - tra cui il più lungo proprio con la cugina di Elisabetta, l'avvenente e intraprendente Lettice Knollys - Robert, che le era rimasto fedele col cuore, pensò di inviare la sua estrema lettera (anche se solo un ringraziamento per le medicine che lei gli aveva inviato) a lei, la sola, la vera regina del suo cuore, sua maestà, la regina d'Inghilterra.
E' storicamente accertato, infatti, che Elisabetta, il giorno che apprese la morte del favorito, si chiuse effettivamente a chiave nella sua camera da letto, con disperazione (e tanto rumore) dei cortigiani, i quali, da fuori, bussavano ansiosamente alla porta per farsi aprire poiché temevano, in primis William Cecil, un suicidio reale, cosa che la sovrana non ebbe mai intenzione di commettere. Li lasciò, invece, implorare da lì, mentre lei, ormai, avanti negli anni, riponeva con calma e mestizia, la preziosa missiva nel cofanetto d'oro vicino al suo letto, nel quale vi era deposto anche il ritratto di Robert da giovane. Ma prima di riporla vi scrisse su: "His last letter", poi chiuso lo scrigno lo rimise dov'era sempre stato.
Alla sua morte, infatti, questa lettera fu trovata dove lei l'aveva lasciata e solo allora tutto il mondo fu certo dell'amore sincero che la grande sovrana nutrì per il suo bel favorito, pur amando farsi definire la regina vergine a causa della sua perenne nubiltà.

La Gregory, invece, include si, questo particolare, ma lo fa mediante una postilla in cui spiega anche cosa l' ha portata a supporre la tesi sulla morte di Amy Robsart, grazie alla ricerca storiografica che ha condotto.


Bibliografia
- L'AMANTE DELLA REGINA VERGINE, Philippa Gregory, Sperling & Kupfer, Milano, 2006.
- LA REGINA E LO ZINGARO, Oscar Mondadori, Milano, 1983

mercoledì 9 gennaio 2008

ELISABETTA: UNA FEMMINISTA SUL TRONO DI ENRICO VIII (Terza parte)






Prigioniera a White Tower
Una volta dentro alla Torre, ad Elisabetta venne assegnata una grossa stanza con tre finestre e un camino.
Mi permetto qui una piccola digressione.
Anni fa visitai White Tower e, posso ammettere con certezza, notai che le camere della Torre sono veramente tetre, chi ha visitato quel posto, può confermare quanto vado scrivendo, oltre ad essersi reso conto della tristezza che incute quel luogo.
In una delle stanze più frequentate, le cui mura sono perfino protette da plexiglass, sono visibili le scritte dei condannati a morte, come Jane Grey e Thomas Seymour, i quali soggiornarono lì in attesa del tragico evento, per lasciare l'estrema testimonianza del loro passaggio.
E' stato un peccato non poter fotografare quel posto, a causa del divieto, perché sarebbe stato davvero interessante conservare testimonianze così preziose.
La cella più cupa del maniero, visitabile dai turisti, comunque, è stata, per me, quella sotterranea di Thomas Moore, il grande giurista e umanista vissuto durante il regno di Enrico VIII, al quale, com'è risaputo, il sovrano, vistosi opporre un rifiuto alla sua autoproclamazione quale capo dello stato e capo della chiesa, pur di concludere le nozze con Anna Bolena, inflisse la solita pena della decapitazione; mentre, proprio grazie a questo gesto estremo, la Chiesa Romana lo fece santo.
Si pensi a quanto dovesse essere spaventoso entrare alla luce del giorno in un posto del genere e sapere che, molto probabilmente, non la si sarebbe vista più. Essere preda di certi animaletti che vivono in pianta stabile in luoghi simili, sporchi, bui, umidi e senza ricambio d'aria, senza avere la possibilità di sgranchirsi le gambe a causa della pavimentazione accidentata, se non per l'inesistente larghezza!
Era proprio una pena dimorare in un posto simile, nell'incertezza del futuro, figuriamoci poi quanto dovesse essere grande la gioia di chi riusciva ad uscirne. E vi assicuro che i fortunati furono davvero pochi!
Ma torniamo a vedere cosa fa la giovane Elisabetta una volta entrata lì dentro.
Nei giorni successivi, all'inizio del suo soggiorno, venne sottoposta a intensi interrogatori, che avevano l'intento di volerle fare ammettere la sua partecipazione al complotto contro la regina; ma c'era perfino chi la desiderava morta. Maria, intanto, temporeggiava: come eretica, l'avrebbe dovuta mandare immediatamente al rogo, ma come sorella, no, perché Elisabetta sembrava disponibile alla conversione e le appariva, quindi, come un'anima da salvare e conquistare.
Il popolo, dal canto suo, dopo l'arresto della principessa, al consueto grido "Dio salvi la regina", contrapponeva sempre, però nella massa "Dio salvi Elisabetta". E risultava anche difficile individuare eventuali spie, pur se sui muri della città si trovavano, sempre più frequenti, scritte ingiuriose contro Maria.
Era, questo, un aspetto molto grave della situazione, se consideriamo che, all'epoca, l'alfabetizzazione riguardava solo la parte colta della popolazione, il che vuol dire nobili e giù di lì; era chiaro che certe scritte non potevano provenire da altri che da questi, stufi del malcontento che li circondava.

Il principale imputato della congiura, individuato in Thomas Wyatt, venne giustiziato l'11 aprile 1554, ma prima di morire, liberò Elisabetta da ogni sospetto annullando le precedenti confessioni, che la vedevano come una dei principali elementi del complotto. Nonostante ciò, la principessa restò nella Torre, dove le era ancora impedito di scrivere, leggere e ricevere visite. Solo alla fine del mese le si consentì di prendere un po' d'aria in cortile ed effettuare una passeggiata di non più di settanta passi, da una torre all'altra, sempre strettamente sorvegliata. Sarà qui, in questo luogo cupo e pregno di morte, che, probabilmente ebbe inizio la storia d'amore con Robert Dudley, anch'egli rinchiuso dai tempi della congiura di suo padre a favore di Jane Grey.
Non sappiamo bene come Dudley riuscì ad arrivare ad Elisabetta, ma in questo preludio ci fu sicuramente lo zampino di due bambini di circa 3-4 anni, figli del personale carcerario, i quali, ogni mattina, la aspettavano per parlare e giocare un po', per ridere e, qualche volta, anche per donarle un fiore. Un giorno addirittura la bambina, Susan, le portò perfino un mazzo di chiavi, così poteva aprire le porte, disse ridendo mentre gliele consegnava. Non si sa esattamente chi abbia dato quelle chiavi alla piccola, ma il messaggio dato poteva indurre a qualche sospetto. C'era ancora chi sosteneva che l'iniziativa di consegnare le chiavi ad Elisabetta fosse della bambina stessa e che le parole dette fossero: "Per aprire tutte le porte del tuo cuore", con un'allusione chiaramente proveniente da Dudley. Fatto sta che questa innocente iniziativa fece insospettire qualcuno e i bambini vennero allontanati e interrogati.
Nel frattempo era atteso, entro breve, il principe Filippo di Spagna, mentre, sempre grazie a Renard, ambasciatore di quel paese, a Maria entrò un'altra pulce nell'orecchio: il diplomatico era a conoscenza che a maggio era prevista un'altra rivolta, difficilmente domabile, poiché ora i ribelli si erano fatti più accorti e la presenza di Elisabetta a Londra, avrebbe potuto fomentare una ribellione, malgrado lei. Era meglio, quindi, suggerì alla regina, allontanarla così la gente l'avrebbe dimenticata. Era la volontà dell'Imperatore a far parlare Renard e Maria, messa al corrente, fece allontanare effettivamente la sorella, inviandola a Woodstock, nell'Oxfordshire, sotto la custodia di uno dei membri del consiglio privato, un uomo vanitoso e torpido, rigido ma non cattivo, sotto il quale Elisabetta sarà ancora sottoposta ai divieti di non leggere, non scrivere e tenuta a distanza di sicurezza dalla fida governante Kate Ashley. Più tardi, le furono concessi un paio di libri, un volume di Cicerone e, naturalmente, una Bibbia, ma anche carta e penna, che Elisabetta usò, come suo solito, per scrivere l'abituale supplica alla sorella, la quale, invece, si sentiva infastidita da tali messaggi, per cui le ordinò di astenersi dallo scrivere "prose sdolcinate".
I nervi di Elisabetta, messi a dura prova, stavano per cedere.
La popolazione, intanto, ferveva. Lo aveva dimostrato anche quando la principessa era stata trasportata da una barca sulle acque del Tamigi, da Londra a Woodstock. In molti, credendo che l'avessero liberata, si erano raccolti lungo gli argini del fiume per acclamarla. Elisabetta, a cui era stato imposto di nascondersi sotto una tenda, affinché nessuno la vedesse, si vide introdurre, nella portantina, dolci e biscotti che le contadine avevano preparato per lei. Di fronte a tali dimostrazioni d'affetto, ormai carica oltremisura, fu costretta perfino a pregare lei stessa le donne di trattenersi dall'elargirle altri doni.

Intanto, era giunto a Southampton il principe spagnolo, Filippo d'Asburgo, promesso sposo della regina, giusto in tempo per celebrare il matrimonio il 25 luglio, nella cattedrale di Winchester.
Durante la cerimonia, la sposa non staccò mai lo sguardo dal crocifisso, essendo talmente entusiasta all'idea di sposarsi, che, di fronte ad una realtà diversa, aveva chiuso un occhio: Filippo, di ben undici anni più giovane di lei (c'è chi dice siano solo nove), di persona, era molto meno attraente e virile di come era stato rappresentato nel ritratto che le avevano mostrato.
Il matrimonio era stato combinato in base agli interessi reciproci, per questo la differenza d'età non rappresentò mai un grosso problema per la nobiltà di entrambe le parti. E Filippo, da parte sua, aveva accettato di sposare Maria solo per concludere un affare vantaggioso, perché l'Inghilterra, in fin dei conti, valeva più di un sacrificio simile.

La rivolta prevista da Renard non scoppiò mai, e a Londra regnava la calma, mentre, per le strade, giravano quattro spagnoli ogni inglese, i quali vivevano timorosi dei primi. Continuava, nel frattempo, il massacro dei protestanti e aumentava il numero dei convertiti al cattolicesimo.
Poco dopo le nozze, la neosposa, innamorata del principe consorte in maniera quasi imbarazzante, si credette incinta; era però un errore che la fece cadere in uno stato di maggior confusione mentale e raddoppiare l'ardore religioso, tra cui il proposito di riportare fino all'ultimo suddito, in seno alla Chiesa Romana. Era infatti convinta di poter ottenere la grazia di divenir madre, sterminando i protestanti, quindi rincarò la dose con un altro olocausto, pur invitata, vanamente, dal marito alla tolleranza. Il 20 gennaio 1555, infatti, Maria ristabilì la legge contro l'eresia e istituì i tribunali inquisitori, quindi da febbraio cominciarono ad ardere i roghi, che non risparmiarono né vecchi, né bambini, né malati, né donne incinte: pur di avere un figlio, la regina immolò migliaia di innocenti; il predicatore di S. Paolo, intanto, aveva preso l'abitudine di terminare i sermoni con la solita invocazione: "Non temere, Maria, hai trovato il favore di Dio e nel tuo grembo concepirai un figlio".

E della prigioniera di Woodstock che ne è stato?
La situazione si capovolgerà completamente e l'aiuto arriverà ad Elisabetta, insperato e a sua insaputa, proprio dal cognato il quale, ormai, cosciente che sua moglie non gli avrebbe mai dato un figlio, era legittimamente preoccupato per la discendenza.
Il principe Filippo, che eseguiva alla lettera la volontà del padre, l'Imperatore Carlo V, per garantire la pace nel mondo si trovò quindi nella condizione di dover scegliere a chi lasciare il trono d'Inghilterra e, a conti fatti, la scelta migliore gli sembrò Elisabetta, pur essendoci la cugina "francese", Maria Stuarda, promessa sposa del delfino di Francia ed erede al trono di Scozia. Ma chi se la sentiva di lasciare un trono, come quello inglese, all'erede scozzese, la quale avrebbe potuto, si, unire i due troni britannici sotto un'unica corona (come è, in seguito, effettivamente avvenuto con Giacomo I Stuart), il che non era neanche un male essendo gli Stuart cattolici, ma lasciare che la Francia potesse avanzare pretese, un giorno, sul trono unificato di Gran Bretagna e Irlanda, oltre che sulla legittima terra, era troppo per gli Spagnoli: si sarebbero trovati ad avere dei vicini confinanti troppo potenti per i loro gusti. Meglio un'eretica inglese, dunque, che dei cattolici francesi!
Si iniziò, perciò, a pensare ad Elisabetta in un altro modo, e chi prima l'aveva avversata, ora le voleva essere amico.
Era l'aprile 1555 e la prigioniera venne condotta, dal suo "carceriere", ad Hampton Court, pur non essendo, la sua, ancora, una vera e propria liberazione, poiché dalle sue stanze non poteva uscire e la regina si rifiutava di vederla, finché una bella sera non fu convocata da quest'ultima, in persona e, per giunta, in camera sua.
Le due sorelle non si vedevano da un anno e quando Elisabetta vide Maria restò impressionata dal suo aspetto stanco e teso: la regina aveva gli occhi cerchiati e sembrava non godere di buona salute.
Il colloquio, secondo gli ordini di Maria, doveva avvenire solo tra loro due, ma dietro un arazzo bucato si era nascosto il principe consorte. Era volontà di Filippo essere testimone inosservato di quel colloquio, anche se, si racconta, che il futuro re spagnolo avesse proprio un debole per guardare, da uno spioncino, le donne.
Il breve incontro sembrò dare l'avvio alla "redenzione" di Elisabetta; la sorveglianza scomparve gradualmente, mentre il principe difendeva la cognata giungendo, perfino, a destare strani e insani sospetti in sua moglie. Non è escluso, infatti, che Filippo abbia nutrito della simpatia per la più giovane delle Tudor. Ma in agosto Carlo V, ormai malato e ansioso di ritirarsi a vivere i suoi ultimi anni nella tranquillità di un monastero, abdicò a favore del figlio, al quale lasciò la Spagna, le Indie e i Paesi Bassi; e, a favore del fratello Ferdinando, l'Impero e gli stati austriaco-tedeschi.
Maria, intanto, abbandonata a sé stessa,viveva a Greenwich con Elisabetta. Era sconvolta per la partenza di Filippo e si rifugiava sempre più nella fede, conducendo un'esistenza prettamente da monaca: mangiava e dormiva poco; la maggior parte del suo tempo veniva dedicata alla preghiera. Da Elisabetta pretendeva la presenza a messa e rosari quotidiani. Pregava affinché il marito ritornasse, per il futuro del suo paese che, era ormai chiaro, non avrebbe da lei avuto un erede da porre sul trono. La cosa che la preoccupava di più, però era sapere che l'Inghilterra, alla sua morte, sarebbe certamente tornata al peccato e all'eresia con la sorella, la quale pativa, in quel periodo, gli sbalzi di umore della sofferente regina.
Senonché ad Elisabetta venivano proposti, matrimoni su matrimoni, che la principessa, ormai indiscussa erede al trono, rifiutava puntualmente, perché voleva rimanere libera, anzi doveva rimanere libera e senza legami. Un astrologo, John Dee, (incluso tra i personaggi de LA REGINA E LO ZINGARO di C. Heaven, libro di cui tratterò nel prossimo articolo), finì perfino in carcere per averle previsto un lungo e prosperoso futuro da regina. Era, comunque, sempre la più amata tra le due Tudor. Le manifestazioni durante i suoi spostamenti pubblici sono la più genuina testimonianza tramandataci, dell'affetto che nutriva la popolazione per questa maltrattata e negletta principessa. La gente era stanca del governo di Maria, che aveva mandato a rotoli il paese in tutti i sensi. La vista di Elisabetta rappresentava, per questo, l'incarnazione del riscatto in meglio di questi sudditi prostrati da un'economia ridotta letteralmente a pezzi. Documenta questa preferenza, il viaggio che Elisabetta effettuò da Greenwich, dove Maria si era trasferita in assenza del marito, ad Hatfield e dove Elisabetta fu costretta, suo malgrado, a soggiornare.

La perdita di Calais
Un giorno, all'improvviso, Filippo, ormai re di Spagna, tornò in Inghilterra per uno scopo ben preciso: convincere la sovrana, sua consorte (che non sapeva dirgli mai di no), a dichiarare guerra alla Francia e a proporre, anzi imporre, ad Elisabetta, il matrimonio con un suo amico e alleato, il duca Filiberto di Savoia, alla quale proposta, la diretta interessata oppose un fermo rifiuto. Non voleva sposare un uomo inferiore al suo rango, anche perché un matrimonio del genere avrebbe voluto dire l'abbandono dell'Inghilterra e questo non poteva accettarlo, né permetterlo, perché sentiva che il suo futuro era lì, in Inghilterra.
Ma il tormento era destinato a continuare e alla principessa venne proposto un ulteriore matrimonio, questa volta con il principe Eric, erede al trono di Svezia; ma anche per questo però ci fu un rifiuto.
La presenza dei tre mesi e mezzo di Filippo in Inghilterra fu l'occasione per finire di demolire quel po' che era stato ottenuto gloriosamente dai precedenti sovrani. Il Paese, infatti, perse, si, la guerra con la Francia, ma la sconfitta più clamorosa, ricordata dalla storia, sarà la perdita di Calais, nel 1558, ultima roccaforte inglese in Europa. Il che equivalse, per Maria, al crollo definitivo delle sue ambizioni. Si rendeva conto, infatti, di aver trasformato il suo Stato in un'appendice della potenza asburgica e, pur avendo lasciato carta bianca alla famiglia del marito, era stata da quest'ultimo, allontanata e, infine, disprezzata. Solo la cieca fede la sosteneva, mentre continuava ad accendere pire umane.
Il 6 novembre, conscia di dover presto rendere l'anima a Dio, Maria fu costretta a nominare sua erede al trono la figlia dell'odiata Anna Bolena, confermando la volontà del loro padre, scongiurando però la futura regina, di mantenere, a tutti i costi, la religione cattolica. Ed Elisabetta promise.
L'11 novembre, sapendo di essere ormai prossima alla fine, la regina fece svolgere l'ultimo sacrificio, pur di tener fede alla parola data: perseguitare i protestanti.
Il 17 novembre 1558, sei giorni dopo l'ultimo inutile rogo, Maria I Tudor morì odiata da tutti, compresi coloro che l'avevano creduta la paladina del cattolicesimo. Passerà, infatti, alla storia come "Maria la Sanguinaria".
Il popolo d'Inghilterra potè finalmente esultare: aveva avuto la sua regina!

Conclusioni
Finisce qui questa biografia dell'ancor inesplorata giovinezza di Elisabetta I Tudor, che amò denominarsi Gloriana, o Elisabetta la grande, degna figlia della grandezza degli ultimi due re Tudor, Enrico VII e, soprattutto, Enrico VIII, figlio del primo. La rossa figlia di costui sarà l'ultima fulgida stella a fiammeggiare nel firmamento dei sovrani più grandi d'Inghilterra: è risaputo, infatti, che finora, nessuno dei re inglesi ha lasciato un'immagine di sé stesso veramente memorabile, quanto quella di Enrico VIII e della sua degna figlia. Né tanto meno, nessun'altra regina, nemmeno Vittoria, ha saputo lasciare un'impronta tanto profonda e favorevole di sé stessa in Inghilterra e nel mondo, quanto questa focosa e intelligente monarca, che ha saputo ricostruire, pezzo per pezzo, il suo Paese devastato, alla morte della sorella, mettendo perfino riparo alle cose iniziate dal padre e rovinate da anni di reggenza, all'epoca del fratello Edoardo VI.
Elisbetta ha plasmato l'Inghilterra a sua immagine e somiglianza; ha incoraggiato il timido affacciarsi dell'allora nascente borghesia e contribuito a riempire le casse dell'erario statale con la pirateria a danno, soprattutto, degli spagnoli con un'apparente e incosciente leggerezza, da non sembrare affatto un monarca del ‘500.
Certo anche il regno di Elisabetta non fu esente da condanne a morte per tradimento e in questo non fu certo da meno di Maria e del loro padre; anzi, la più famosa fu inflitta proprio a sua cugina, Maria Stuarda, regina di Scozia, che complottò realmente, e più volte pure, contro di lei.
Questa femminista antetempo, dotata di scaltrezza e abilità politica, oltre che di fiuto per gli affari, doti più uniche che rare in un regnante, a differenza di Maria, non mandò mai a morte gente innocente colpevole solo di professare una fede diversa dalla sua. Se mandò qualche cattolico dal boia, fu sempre e solo per motivi concreti: il complotto e il tradimento, che potevano minare il suo regno e la sua vita.

Bene, siamo giunti al termine. Non so se è proprio il caso di continuare ad illustrare la vita di questa grande sovrana, ma se dovessi farlo, non potrò tralasciare i particolari più piccanti sui suoi presunti amanti (come Dudley) o sui divertenti aneddoti che ci hanno tramandato gli ambasciatori dell'epoca, o la sua destrezza politica, perché sono caratteristiche, fondamentali, della sua poliedrica personalità.
Ma adesso basta così, mi fermo qui. Elisabetta ha ancora tanti anni avanti. E' solo una regina venticinquenne che molti vorrebbero accalappiare per mettere le mani sul suo regno, e che credono ingenua e sprovveduta perché donna.
Tutta questa folla di personaggi, più o meno importanti, si ricrederà di fronte a quella rossa più scaltra di un consumato politico e se, in principio, resterà spiazzata e sbigottita, più tardi si lascerà seducentemente ammaliare dal suo ingegno superiore e raffinato.
Ma per raccontar questo c'è tempo: Elisabetta è ancora giovane e ha ancora tutta la vita davanti. Possiamo anche permetterci di aspettare.

A TUTTI COLORO CHE HANNO GRADITO QUESTO BREVE SAGGIO GIOVANILE DI ELISABETTA I, LASCIO LA PROMESSA CHE CI SARA' UN SEGUITO RIGUARDANTE LA SUA VITA DA REGINA.

Bibliografia
- Elisabetta d'Inghilterra. Una donna al potere, (Dara Kotnik), Rusconi SpA, Milano, 1984.
- Le sei mogli di Enrico VIII (Antonia Fraser), Oscar Mondadori, 2002, Milano.

ELISABETTA: UNA FEMMINISTA SUL TRONO DI ENRICO VIII (Seconda parte)

La morte del lord ammiraglio, fervente spasimante della giovane Elisabetta, Thomas Seymour, non le cambiò modo di vivere, né la ragazza si distrasse mai dallo studio, soprattutto da quello della storia, materia che prediligeva e a cui dedicava, ogni giorno, almeno tre ore, anzi!. Il suo apprendimento non si limitava solo ad imparare mnemonicamente le nozioni di un solo libro: lei andava oltre. Per evitare che il suo giudizio ricadesse nella parzialità, era solita confrontare gli episodi appresi, o la biografia dei personaggi studiati, su altri libri. Mai, più tardi, l'inclinazione per lo studio, nocque alla sua femminilità, né quell' 'educazione maschile' le procurò guai. L'Elisabetta adolescente era una ragazza gradevole, quasi bella e i suoi modi, pure, erano definiti semplici e pieni di grazia. Allo stesso tempo, però, era priva di quelle superficialità femminili ed era risoluta e capace di tener testa a chi voleva farle del male: l'istruzione l'aiutò ad essere più forte.
Ripresero, intanto, cordiali, i rapporti col fratello, congelati durante la congiura di Lord Thomas, mentre il reggente fu, a sua volta, accusato della responsabilità di una ribellione nelle campagne e veniva, pertanto, destituito dalla carica. Era il gennaio 1550, poco tempo dopo anch'egli fece la stessa fine del fratello: con l'accusa formulata direttamente dal re, di voler "fare il padrone".
Il posto di lord Edward Seymour, cioè da reggente, fu preso dal conte di Warwick, poi duca di Northumberland, lord John Dudley, padre del più famoso favorito della futura regina Elisabetta.
Edoardo VI, che aveva allora 13 anni, iniziò ad accusare i primi disturbi della malattia che lo portò poi alla tomba. A succedergli al trono c'era quindi la terrificante prospettiva dell'ascesa di Maria, figlia maggiore di Enrico VIII, fatto gravissimo per i protestanti, perché questo avrebbe favorito i consiglieri cattolici a discapito dei primi, oltre ad abolire tutti i privilegi acquisiti dopo lo Scisma. Né si escludeva l'ipotesi di un'orribile guerra civile. Tutti erano in ansia e temevano per sé stessi. Sarà proprio questo timore, unito alla smodata ambizione, a portare John Dudley a progettare un complotto ai danni di Maria Tudor, a cui preferiva, senza ombra di dubbio, la protestante Elisabetta, che fece venire a Londra, accogliendo la sua richiesta, di abbracciare il fratello. Era il 17 marzo e il ricongiungimento avvenne in maniera calorosa. Entrambi i fratelli erano cresciuti ed Elisabetta sembrava addirittura più grande della sua età: aveva un comportamento assennato e maturo e vestiva già come un'adulta, suscitando commenti favorevoli. Pur indossando abiti sobri e non certo modesti, che stridevano a confronto con quelli delle dame di corte, eccentrici ed elaboratissimi. I capelli non erano arricciati, secondo i dettami della moda, ma raccolti dietro la nuca, morbidamente. Era un altro punto a suo favore che la fece distinguere in modo regale.
La confidenza con Edoardo riprese, ma con l'andare del tempo, indispettì il reggente, non si sa il perché, per il quale livore scavalcò Elisabetta, nella successione al trono, e si rivolse a Jane Grey, combinando il matrimonio di questa con uno dei suoi figli, Guildford. Così, con Elisabetta lontana dal fratello morente, poichè le aveva vietato di vedere, di visitarlo, per timore di un complotto, convinse il re a firmare un testamento a favore di Jane (e Guildford).


La prima regina
Dudley però non aveva fatto i conti con l'ardimento della figlia maggiore di Enrico VIII, non da meno del padre in bellicosità, e dopo soli dieci giorni dalla morte del fratello, col popolo dalla sua parte, la ormai Maria I, prese possesso del trono che le spettava legittimamente.
I protestanti, che continuavano a sentirsi ancora legati alle pratiche di Roma, come i cattolici, poiché la Riforma era recente, non avevano ancora avuto modo di consolidarsi, per cui Maria veniva vista da metà dei sudditi, come una liberatrice, una Tudor che avrebbe fatto giustizia e messo ordine dopo il disordinato regno di Edoardo.
E in effetti, in principio, Maria rispose a tali aspettative, mostrandosi disponibile all'ascolto. Fece, infatti, il suo ingresso a Londra con Elisabetta al fianco, per dimostrare alla popolazione la sua apertura verso la sorella protestante: abile decisione politica, che le garantì l'iniziale favore dei sudditi.
Era il 1553 e la nuova regina, appena assisa sul trono, attendeva la combinazione del suo matrimonio col cattolico figlio dell'Imperatore Carlo V, il futuro Filippo II di Spagna.
Il giorno dell'incoronazione, però, c'è da precisare, che la popolazione, al passaggio delle due sorelle, acclamò maggiormente la più giovane, che la regina, per questo i cattolici vedevano in Elisabetta, l'insidia del regno inglese. Il sogno di Maria era, infatti, stroncare l'eresia e riprendersi tutto ciò che suo padre le aveva tolto, con qualsiasi mezzo, come in un unico riscatto: la riabilitazione della vera fede e quella personale.

L'inizio del regno di Maria sembrò promettere bene. Fece scarcerare tutti i prigionieri politici rinchiusi nella Torre; il matrimonio e la speranza-necessità di un erede, poi, la addolcirono maggiormente; con Elisabetta era affabile e ben disposta e a tavola le assegnava perfino il posto d'onore al suo fianco, oltre che la sua confidenza. Dal canto suo, la minore le era grata ma si annoiava a condurre una vita scandita così rigidamente, pur essendo a corte, finchè non sopravvenne qualcosa che fece tornare a galla l'antica rivalità tra Caterina d'Aragona e Anna Bolena, nelle figlie. Elisabetta non aveva mai partecipato ad una messa da che Maria era stata incoronata e, se quest'ultima per un po' aveva chiuso un occhio, alla fin fine si era resa conto che se la sorella continuava di questo passo, sarebbe stata un cattivo esempio per i protestanti del regno, per cui tentò di convertire l'eretica, dalla quale conversione quest' ultima si difese spiegando che lei non aveva mai conosciuto "la dottrina dell' antica religione".
Sarà uno scontro ostile poi, che porterà a diradare i rapporti tra le due, fino alla completa interruzione. Dopo di che ad Elisabetta non restò che implorare la sorella maggiore, che evitava di parlarle, per spiegarle che non era colpa sua se era stata educata al protestantesimo; e che lei era disponibile ad apprendere, dai libri giusti e dai maestri giusti, la vera fede.
Maria, mossasi a compassione, dopo queste parole, vide in lei un'anima da salvare, così Elisabetta, dal giorno successivo, si presentò nella cappella reale ad assistere alla messa cattolica (durante il suo regno Maria ne faceva recitare fino ad otto quotidianamente); ma senza avere l'aria contrita di chi crede in quello che fa. Sbadigliava, si agitava, lamentandosi e toccandosi continuamente lo stomaco perché, sosteneva, le faceva male. Al che Maria riaprì gli occhi, dandole però ancora del tempo per ravvedersi.
Nel frattempo, poiché la principessa veniva vista come un fastidioso ostacolo al ritorno definitivo dell'Inghilterra in seno alla Santa Romana Chiesa, Carlo V affrettò i preparativi per il matrimonio tra suo figlio e la regina inglese ed escogitò qualche espediente che reggesse, per mandare Elisabetta alla Torre, anche perché alla corte francese viveva la promessa sposa del delfino di Francia, Maria Stuarda, figlia di una sorella di Enrico VIII e possibile erede al tono d'Inghilterra. Né l'Imperatore riusciva a mandare giù l'idea di un'espansione dei francesi nella vicina Inghilterra, se questa, una volta tornata nell'orbita della Chiesa Romana, poteva essere usata a proprio piacimento per estendere la sua potenza oltre Manica, servendosi della Stuarda, che per di più era cattolica.
Intanto, com'è già stato detto, si cercava di accelerare il matrimonio di Filippo con la 37enne Maria, mentre ad Elisabetta si proponeva qualche pretendente cattolico, pur di neutralizzarla, che lei rifiutava puntualmente con un secco e reciso no.
Per volere di Maria e del parlamento a maggioranza cattolico, poco dopo, venne dichiarato nullo, con un atto, il divorzio di Enrico VIII e Caterina d'Aragona, per cui Elisabetta restava sempre una bastarda nata da una relazione extraconiugale del re con Anna Bolena, anche se la linea ereditaria, qualora Maria fosse rimasta senza un erede, sarebbe toccata sempre a lei.
Maria, la quale in privato con l'ambasciatore spagnolo Renard, chiamava la sorella "una bastarda del re", anzi, l'accusava non di essere figlia dello stesso padre, bensì di un musico, Marc Smeaton, che all'epoca, era stato annoverato tra gli amanti della Bolena, arrivò a provare un vero e proprio odio per lei, accompagnato da un sordo rancore e a perpetrarle una maligna serie di dispetti: dalle precedenze non rispettate ai piccoli sgarbi; dalla scortesia dei cortigiani al toglierle addirittura il saluto.
E lei, la nostra eroina, cosa fece? Come reagì? Andando via ad Ashridge, chiedendo il permesso alla sorella che, prima di concederglielo si consigliò col fidato Renard, il quale si mostrò concorde, ma a condizione che la regina fosse informata su tutto ciò che concerneva la principessa. Elisabetta, da parte sua, temeva l'allontanamento, perché era conscia del fatto che si tramava contro di lei e si cercava di inserirla in complotti inesistenti, per poi accusarla di tradimento.
Nel paese, infatti, regnava una tensione già avvertibile, ma Maria non se ne curava, poiché pensava ai preparativi delle imminenti nozze. Gli inglesi, cattolici e non, non erano proprio propensi ad accettare un consorte straniero per la loro sovrana e ad aprire, di conseguenza, le porte ad un seguito di spagnoli. Così qualche focolaio di ribellione si accese, in effetti. Era il 1554 e Maria reagì rapidamente e violentemente pure.
Della congiura venne accusata, naturalmente, anche Elisabetta, perciò Maria le inviò un lettera affettuosissima per avvertirla che in giro c'erano certi tipi loschi intenzionati a mettere in cattiva luce la sua figura, per questo la pregava di recarsi a Londra, al più presto, dove avrebbe potuto proteggerla. Elisabetta non la bevve e si diede malata, come faceva sempre nei momenti difficili e Maria, per assicurarsi che la cosa fosse vera, inviò ad Ashridge una commissione di medici che, notò, si, che la principessa era malata, aveva la febbre ed era gonfia, ma non al punto da disubbidire alla regina; quindi, la ragazza fu trasportata a Londra, sotto la sorveglianza della fedele "Kat" e della gente che assistette, commossa, a un corteo impietoso che accompagnava, obbligandola, la giovane principessa biancovestita con un volto dal colore molto simile.
Elisabetta la sapeva lunga: perché, se no, nel gelido mese di febbraio, si fece trasportare su una lettiga scoperta, indossando solo un vestito bianco che accentuava il suo pallore? E' chiaro che voleva apparire una povera vittima, la quale, pur malata, era stata costretta a recarsi a corte per obbligo della perfida e spietata sorella. E un popolo che piangeva per lei e la compatisse, era proprio ciò che cercava.
Renard e i cattolici però non ci cascarono e, pur visibilmente malata (anche se non in pericolo di vita), Elisabetta venne sottoposta a interrogatori circa una sua presunta partecipazione al complotto contro Maria, appena sedato. Continuando a negare, la ragazza, rifiutò addirittura di rimettersi alla pietà della sorella perché, sosteneva, non aveva colpa. Il 18 marzo, pertanto, venne condotta alla Torre, entrando attraverso la Porta dei Traditori, quella dove passavano i condannati a morte, cosa che la fece gridare, rabbrividendo, che era un'ingiustizia farla passare di lì; quindi, è stato narrato in seguito, esclamò solennemente: "Qui approda il suddito più fedele che sia mai salito su questi gradini. A te lo dico, o Dio, che sei il mio unico amico".
Senza versare una lacrima, perché nel frattempo ci pensava la pioggia a bagnarle il viso, in preda al panico, si abbandonò su un gradino melmoso, rifiutandosi di seguire il corteo che l'accompagnava. Piegata su se stessa, col mantello stretto addosso, tremava e balbettava, quando uno degli accompagnatori la invogliò ad alzarsi perché pioveva e "non giova alla salute restare qui", aggiunse. Al che Elisabetta, di rimando rispose: "Meglio qui che in luogo peggiore…Solo Dio sa dove mi porterete…". Un paggio, a questo punto, si mise a singhiozzare rumorosamente e, venne riferito, che fu proprio grazie a questo imprevisto che la principessa si decise ad alzarsi e proseguire fino alla Torre, rimproverando perfino il giovane del il suo pianto.
Mi sembra, questo, un momento alquanto tragicomico. Si provi a immaginare la scena, come l'ho immaginata io. Anzi, chi conosce la Traitor's Gate, la Porta dei Traditori, di White Tower se la può ancor meglio figurare: Elisabetta, piena di composta dignità, come si vuole sia una principessa del suo rango, la quale, pur prostrata dalla consapevolezza di doversi dirigere in una delle peggiori prigioni inglesi, da cui solo pochi ne erano usciti vivi, e dove la sua stessa madre finì i suoi giorni, rimproverare con severità il giovane paggio, che piangeva proprio per lei, affinché la smettesse!
Mi sembra un'immagine talmente buffa, questa, che prelude, secondo me, già a quello che sarà il carattere definitivo della futura regina, oltre a quella che fu l’ effettiva conduzione del suo regno.

Il seguito di ciò che accadde alla novella prigioniera sarà inserito nella terza parte di questo breve saggio biografico dell'Elisabetta pre-regina.

giovedì 3 gennaio 2008

ELISABETTA: UNA FEMMINISTA SUL TRONO DI ENRICO VIII (I parte)







La “preistoria”
Sappiamo tutti che Elisabetta I era figlia di Enrico VIII e della sua seconda moglie, Anna Bolena, forse la più famosa tra le sei succedutesi, per la sua presunta pratica di magia bianca (era chiamata, infatti, "la strega") e per i suoi numerosi tradimenti a discapito del re, suo marito. Un marito che, dopo sei anni di corteggiamenti e un'altra ventina di matrimonio felice e voluto per amore, più che per interesse politico, con la principessa spagnola Caterina d'Aragona, figlia dei sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona (coloro che scacciarono i Mori dalla Spagna e che unificarono il paese com'è attualmente), non aveva esitato a romperlo perché invaghitosi di quella sottile e vulcanica ragazza, non particolarmente bella, ma dall'intelligenza e dalla cultura vivacissime.
Vissuta alla corte francese con sua sorella Maria, Anna Bolena, verso i 15-16 anni, fece ritorno in Inghilterra dove, dopo aver assistito alla relazione di sua sorella col re, approfittò della seconda gravidanza di quest'ultima, per mettersi in luce agli occhi del sovrano, già prostrato per la vana ricerca di un erede maschio mai arrivato. E Anna seppe mettersi così bene in luce, da tenere il futuro marito sulla corda per ben sei anni, prima di cedere, dopo averlo persuaso, però, a farsi sposare, e non certo prima di aver ripudiato la legittima moglie ormai, è il caso di dirlo, in avanzato stato di menopausa. Se non fosse stato perché lei era ormai incinta, forse Enrico non avrebbe precipitato le cose, così come fece, pur di impalmare quella ragazza sfrontata e ammaliante.
Prima di passare alla descrizione vera e propria di Elisabetta, è necessario però ricordare che, a causa di questo matrimonio e dell'esigenza di avere un erede maschio, Enrico VIII, vistosi negare dalla Chiesa Romana, a cui allora apparteneva ancora l'Inghilterra, l'annullamento del primo matrimonio, fondò la Chiesa Anglicana, sancendo con l'Atto di Supremazia, nel 1533, la sua superiorità sul Papa: Enrico si era, in pratica, autoproclamato capo dello stato e capo della chiesa, attuando il famoso Scisma Anglicano. Cosa unica al mondo, di quei tempi, pur essendoci già in giro, più o meno forti testimonianze di eresia. Questa levata di testa di re Enrico, però, fece un po' da modello trainante per tutti gli altri stati simpatizzanti il protestantesimo. Oltre a ciò bisogna aggiungere qualche altro particolare sul conto di Anna Bolena, soprannominata anche 'the wore', la puttana, perché si narra che la nuova regina avesse già amanti ben prima di legarsi al re e si mormorava che perfino Elisabetta non fosse figlia di Enrico. Addirittura si arrivò ad accusarla di praticare stregoneria e di far sesso con il proprio fratello, pur di avere un erede maschio da dare al re, visto che spesso era stata sentita vantarsi allegramente che ormai il marito non era più in grado di procreare per …impotenza. Se sia vero oppure no, non lo sapremo mai. Fatto sta però che, sia Anna Bolena, che la terza moglie, Jane Seymour, concepirono, così come concepirono diverse altre presunte amanti di Enrico VIII.
A causa di tali voci, quindi, e delle conseguenti accuse, comunque, Anna Bolena passò alla storia come la prima regina mandata al patibolo, dal marito, per alto tradimento coniugale e verso la persona del re.
La fortuna di Anna si era già esaurita con la nascita di Elisabetta, il 7 settembre 1533, la quale, per ironia della sorte, sarà l'unica figlia vivente, esattamente come nel caso della sfortunata Caterina d'Aragona, che la precedette.
L'imbarazzante neonata fu accolta con molte cerimonie e scarso amore dalla madre, che l'allontanò subito, non soffrendo minimamente per il distacco.
La piccola Elisabetta fu quindi affidata a una governante, lady Brian e mandata nel palazzo di Hatfield, nell'Hertfordshire, dove trascorrerà l'infanzia, mentre la sorellastra Maria, figlia di Caterina (la prima moglie), dopo essere stata dichiarata illegittima e, pertanto, privata del titolo di principessa, venne nominata sua dama d'onore, carica considerata, da quest'ultima, comprensibilmente umiliante.
Dopo altre tre gravidanze finite male, Anna Bolena, il 2 maggio 1536, venne arrestata e rinchiusa nella Torre con l'accusa di adulterio compiuto con cinque uomini contemporaneamente, tra cui il suo stesso fratello. Neanche questo sapremo mai se sia vero oppure no. Comunque sia, la Bolena, riconosciuta colpevole, fu decapitata il 19 maggio di quello stesso anno, all'età di 29 anni. Condanna a cui non scampò neanche il suo adorato fratello George.
Il giorno dopo, il 20 maggio, Enrico VIII sposò finalmente la dama di corte Jane Seymour, con cui aveva allacciato una relazione ormai stabile.
Nel gennaio dello stesso anno, intanto, era morta la sfortunata Caterina, la prima moglie, con grande esultanza della Bolena, allora incinta nuovamente. Ma proprio il giorno dei funerali la regina, allora in carica, partorì prematuramente un maschietto morto. Era l'ultimo tentativo per risollevare le sorti, ma, come la precedente, vide fallire miseramente i suoi castelli in aria.
Sarà solo la terza che darà il sospirato erede maschio a re Enrico, l'unico legittimo, perchè di bastardi maschi in giro, perfino nella corte stessa, ce n'erano fin troppi.
Edoardo VI soppianterà quindi anche la legittimità e l'ereditarietà di Elisabetta dichiarata, al pari di Maria, bastarda.
Elisabetta a quell'epoca aveva tre anni e se Maria soffriva a causa dell'età maggiore, la sorellastra non era ancora in grado di comprendere le sofferenze dell'orgoglio ferito; conoscerà invece le conseguenze dell'emarginazione. Venne, infatti, ridotto il bilancio concesso a lady Brian, già governante di Maria ed ora anche della bambina. Il cibo, si lamentava la gentildonna, era appena sufficiente a sfamare le due sorelle e gli abiti ad Elisabetta non venivano neanche riforniti, cosicché la bambina, in piena crescita, doveva arrabattarsi con i resti, ormai consunti, di un guardaroba un tempo lussuoso. Era una miseria, questa, voluta e predisposta per umiliare le due sorelle e a niente servirono le suppliche della dama affinché si rifornisse Elisabetta perfino di biancheria.
Forse sta in questo umiliante passato la causa delle debolezze che caratterizzeranno la personalità di Elisabetta, come l'inclinazione sfrenata per gli abiti sfarzosi ed elaborati di cui non volle mai privarsi. Alla sua morte, infatti, se ne contarono ben 3000, se non di più. Forse è qui l'origine di certi futuri comportamenti di Elisabetta regina: l'avarizia, la diffidenza, l'ansia e la capacità di attendere.
La negletta principessina, comunque, imparò presto l'arte del tacere, di dissimulare, di reprimere e di adattarsi alle circostanze senza rassegnarsi. Per non parlare poi del senso di sospetto, sempre vivo, che aleggiò perennemente nei confronti di tutti.
Dei genitori non si era mai fidata: sulla madre, che non aveva quasi conosciuto, imparò presto a non farsi domande. E del padre, che un giorno la esaltava e il giorno dopo la rinnegava? Pur non soffrendone, apparentemente, da piccola, Elisabetta non capiva la volubilità paterna, ma, da donna, si rese conto di aver incassato dei traumi che la portarono a precise evoluzioni successive.
E' strano parlare in termini così umani di una sovrana tanto lontana nel tempo (500 anni e più) e tanto grande e famosa come regina. Sembra quasi che questi personaggi, soprattutto se appartengono al passato, debbano essere quasi delle divinità o giù di lì, mentre, in realtà, sono state persone normalissime come tutti noi, solo nate in circostanze diverse. Comunque sia, degli anni precedenti all'incoronazione, sulla vita che la futura regina conduceva non si sa ancora molto. E' risaputo che a 4 anni Elisabetta fosse già una bambina seria e assennata e al battesimo del sospirato maschio di Enrico VIII, fu lei che resse i lembi battesimali dell'abito del principino Edoardo assolvendo, già con grande dignità, il suo primo incarico ufficiale nella cappella di Hampton Court. Era ancora così piccola e gracile fisicamente che fu condotta lì in braccio allo zio del battezzando, Edward Seymour.
Protrattosi ben oltre la mezzanotte la cerimonia, al ritorno dalla cappella venne dato un nuovo ordine e la piccola non fu più riportata a palazzo dal gentiluomo, ma tornò a piedi, al fianco della sorella maggiore.
La convivenza e la consapevolezza di essere entrambe vittime, ingiustamente, le univa nella disgrazia. Anzi, Maria , essendo tanti anni più grande, aveva di nuovo ottenuto la precedenza e pareva aver smussato i rancori verso la sorellina, nei confronti della quale sembrava provare sincero affetto, alternato a momenti di tenerezza. Sono testimoniati, infatti, i loro giochi a carte o le passeggiate sui prati di Hatfield, alle quali testimonianze si aggiungerà qualche lettera di Maria al padre in cui scriveva: “Mia sorella è una bambina per la quale, in avvenire, vostra Maestà avrà motivo di rallegrarsi”.
La loro emarginazione sembrò finire grazie alla felicità del re per aver ottenuto l'erede maschio, tanto da non sembrare troppo rattristato dalla morte della terza moglie, Jane, per complicazioni post-parto. Contemporaneamente alle esequie pubbliche, di fatti, fece svolgere intense ricerche, in Francia, per una nuova donzella da impalmare. Maria ed Elisabetta, pur essendo ancora marchiate come ‘reali bastarde’, furono riammesse a corte, dove, ogni tanto, godevano di qualche sporadica manifestazione di 'reale' affetto paterno, che si spingeva perfino a chiamarle, vezzeggiandole: “care bambine mie”. Non era molto, ma era già qualcosa.
Il legame più forte, però, Elisabetta lo intreccerà con Edoardo, più vicino per età e perché entrambi orfani di madre, oltre che occasionali compagni di gioco. Elisabetta, a quell' epoca, aveva un gran bisogno di giocare, essendo vissuta sempre tra adulti e libri. Studiare era, infatti, la sua principale attività. Da allora, le altre lezioni a cui verrà sottoposta, furono quelle di danza, ricamo, musica e altre arti tipicamente femminili di quei tempi.
Una nuova governante, Kate Champernowne, una brava ragazza di famiglia povera e onesta, che più tardi sposerà un cugino di Anna Bolena, John Ashley, da questo momento, l'accompagnerà per moltissimo tempo. La vita, ora, con questa simpatica governante al fianco sembrava davvero meno dura.

E il padre come passava i suoi giorni da vedovo?
Nei tre anni successivi la morte della terza moglie, Enrico VIII si diede da fare per trovare una nuova compagna, che, questa volta, pretendeva assolutamente bella. E' risaputo, infatti, che, in questo arco di tempo, l'artista preferito di sua maestà, Hans Holbein il giovane, attraversò più volte la Manica per ritrarre le principesche fanciulle candidate alla sua mano. In ogni miniatura che il pittore fiammingo riportava nell'isola, il sovrano ci trovava sempre un difetto: una era troppo alta, l'altra troppo magra, un'altra ancora aveva gli occhi troppo vicini…Finchè non giunse a progettare un rudimentale prototipo del concorso di Miss Europa: intendeva organizzare, in Inghilterra, una parata di nobildonne straniere, tra le quali però, promise, si impegnava a scegliere colei che più lo aggradava, come moglie.
Il re di Francia, di fronte ad una richiesta simile, si mostrò molto scandalizzato, soprattutto perché era da lui che il sovrano inglese pretendeva la maggiore collaborazione. Ma lo scandalo era più dovuto ad un particolare: re Enrico aveva raccomandato all'ambasciatore francese di riferire al suo re che le ragazze in concorso avrebbero dovuto sfilare nude davanti a lui, che intendeva giudicarle!
Naturalmente non fu concluso niente e si lasciò convincere da Cromwell che la più bella di tutte era la principessa di Cleves, la quale, a suo dire, era perfino più bella della prescelta di Enrico, Cristina, duchessa di Milano. Cromwell però non badava propriamente alla bellezza delle principesse, ma alla convenienza politica del Paese, perché, avvedutamente e da buon politico dal fiuto giusto, teneva ad assicurare al regno inglese una principessa imparentata con la più alta nobiltà tedesca. Così, dopo aver stipulato un vero e proprio contratto per il fidanzamento di Enrico VIII con una “zitellona pudibonda”, ritratta assurdamente come un'avvenente e prosperosa bellezza, sempre da Holbein, si celebrerà il matrimonio, che però Enrico non riuscì mai a consumare. Dai medici reali si seppe poi che il re non era impotente, ma nauseato dal corpo della regina, così disordinato (“disordered”) e controproducente (“indisposed”), da non stimolare alcun desiderio.
Pertanto, la quarta moglie restò illibata; il matrimonio sciolto e la regina ripudiata, con sua profonda gratitudine, vista la fine fatta dalle precedenti. La regina mal sopportava quell'omaccione che s'infilava tutte le sere nel suo letto, il quale, prendendole la mano le augurava con una smorfia sul viso la buonanotte e poi si girava dall'altra parte. Era, confidò a lady Rochfort, una dama di compagnia, solo un ingombrante accessorio del letto, nient'alto.
Intanto, Enrico meditava la vendetta contro Cromwell, che, nel luglio 1540, venne effettivamente decapitato per alto tradimento.
Tolto il cattivo consigliere di mezzo, al monarca inglese era tornato il desiderio di scegliersi da solo la prossima moglie. La sua scelta ricadrà, colmo dei colmi, su una cugina diciannovenne di Anna Bolena, Catherine Howard, definita dal monarca “una rosa senza spina” e, dalle testimonianze dell'epoca, sembra proprio che la ‘fortunata’ sia stata davvero una bellezza, da aver fatto perdere letteralmente la testa al re.
Elisabetta aveva all'epoca 7 anni e nella grande sala di Hampton Court, al banchetto ufficiale delle nozze, il padre le assegnò perfino un posto d'onore di fronte alla nuova regina.
Era già una bambina piena di contegno, mai udita lamentarsi quando, dall'esilio di Hatfield, veniva periodicamente chiamata a comparire alle feste familiari. Né ebbe il tempo di capire se nutriva simpatia o meno nei confronti della nuova matrigna, vista la velocità, simile ad una meteora (che prima o poi s'infrange), della presenza fugace della quarta regina nella vita di Elisabetta bambina. Tale fu infatti la durata della vita matrimoniale della coppia reale: nel 1542 la giovane Catherine Howard fu condannata alla decapitazione, come la cugina Anna, per adulterio.


Nel 1543, precocemente invecchiato, Enrico VIII si risposò per la sesta volta. Molto ingrassato e malato, scelse, questa volta, una tranquilla e ricca vedova trentenne, Catherine Parr, l'unica tra le matrigne, che prese a cuore davvero la situazione dei principini. Elisabetta, grazie alla Parr, potè recarsi spesso a corte, dove le assegnarono insegnanti di primordine, come John Checke per il greco e Roger Ascham per il latino. La bambina fu grata alla regina per questo e glielo dimostrò con doni molto personali, tipo una raccolta di preghiere inglesi tradotte in latino, francese e italiano. Era questa un'abitudine della giovane Elisabetta ormai consolidata all'epoca. Tutte le nozioni apprese in storia e geografia, testi biblici, mitologia e scienze era avvezza, per non perderle di memoria, a trascriverle traducendole nelle lingue vive e morte che le venivano insegnate. Questa straordinaria, intelligente e diligente abitudine, le permise, da regina, di dialogare personalmente con gli ambasciatori di altri paesi, senza avere il minimo bisogno di intermediari. Cosa insolita non tanto per una regina, ma soprattutto per una donna del ‘500.
La coscienziosa giovanetta finì così per amare più i libri che i giochi. In un dipinto conservato a Windsor, che la ritrae circa 12-13 anni, la principessa ha, di fatti, tra le mani un libro, un'aria
seria e dignitosa che, se non fosse per la giovane età, la si potrebbe scambiare per un'adulta solitaria e infelice, con già un grosso bagaglio di esperienza alle spalle. E', si, vestita sontuosamente, come si conviene ad un'adolescente del suo rango, ma il viso pallido e serio non è certo quello di una ragazzina spensierata e viziata, oltre che istruita come un ragazzo.
Pur restando bollata come illegittima, l'Elisabetta del ritratto viveva, però, la vita privilegiata di principessa di sangue reale. Aveva, si, quel grosso buco di carenza affettiva dei primi anni di vita nel cuore, ma, tutto sommato, adesso, la vita che conduceva non risultava più così insopportabile: il padre, a riprese alterne, glielo dimostrava. Dalla matrigna, la regina Catherine, era trattata come una figlia e, cosa ancor più sentita, le erano vicini il fratello Edoardo e la governante ‘Cat’, 'gatta', come chiamava curiosamente la governante Katherine Ashely. E' questa un tendenza che caratterizzerà sempre Elisabetta: infatti, tutti, o quasi, coloro che le saranno più o meno vicini e godranno della sua fiducia, saranno fatti oggetto di paragoni e, quindi, soprannominati con un nome che sorgerà spontaneo sulle labbra della sovrana nei momenti più impensati.
Anche con la sorella Maria continuava ad avere un buon rapporto, testimoniato dal libro dei conti di quest'ultima, sul quale venivano annotati i frequenti regali fatti alla minore. Ed erano, questi doni, di valore come tessuti per abiti, collane, spille e una palla d'oro portaprofumi.

1547
Morte di re Enrico, a 56 anni. Gli ultimi mesi di vita li aveva trascorsi pretendendo dalla moglie che gli tenesse, per ore, la gamba gottosa in grembo. Anche per questa moglie la morte del re fu sicuramente una liberazione, come lo fu, a suo tempo, lo scioglimento matrimoniale per Anna di Cleves.
L'ordine di successione predisposto nel testamento prevedeva come primo erede Edoardo, al
quale, nel caso non avesse avuto figli, avrebbe dovuto succedere Maria, la quale, se a sua volta non avesse generato eredi, avrebbe lasciato il trono alla sorella Elisabetta. Se anche quest'ultima fosse morta senza eredi, la linea di discendenza era da spostare alla famiglia di una delle sorelle di Enrico, Maria, quindi a sua figlia Frances Grey, dopo di che alle tre figlie di quest'ultima, Jane, Catherine e Mary.
La regina vedova, intanto, aveva riallacciato la relazione con Thomas Seymour, zio del re bambino, Edoardo VI.
Alla morte del vecchio re la famiglia Seymour, un po' a causa della parentela, col nuovo sovrano, un po' perché il defunto re aveva predisposto un consiglio di reggenza durante la minorità del figlio (che non fu mai istituito), si trovò all'apice del potere, per cui, pur non essendolo di fatto, colui che un giorno aveva accompagnato Elisabetta bambina al battesimo del fratellino, si sentì autorizzato ad autoproclamarsi reggente per il nipote, oltre ad estorcere il titolo di duca di Somerset al ragazzo. Non solo. Edward Seymour non aveva dimenticato il fratello Thomas, che nominò lord ammiraglio, anche se quest' ultimo aveva altre mire: la condivisione della reggenza, equamente spartita, in quanto anch'egli zio del re quanto il primo. Senonchè Thomas, deluso per l'esclusione dalla carica più importante del regno, puntò più in alto ancora e ad un periodo a più lungo termine. Si vedeva già, infatti, come principe consorte e sposo di una delle eredi di Enrico VIII, nonostante la relazione con la regina vedova. Aveva, all'epoca, 33 anni, era di gradevole aspetto, simpatico e godeva di un'ottima reputazione, oltre ad essere ancora scapolo. In principio pensò alla ventisettenne Maria, la maggiore delle due principesse, ma poi si ricredette: era troppo cattolica, troppo riservata e sospettosa per credere ad un'improvvisa fiamma d'amore e, di sicuro, avrebbe respinto la sua proposta comprendendo immediatamente che, se fatta, era solo per arrivare al potere e superare il fratello reggente. Pertanto, Thomas Seymour si rivolse alla più giovane delle due sorelle, Elisabetta che allora aveva 13 anni e mezzo. Chiesto però il consenso ufficiale, se lo vide negare da Edward stesso e dal consiglio.
La relazione con Caterine Parr, intanto, andava avanti a gonfie vele ed era risaputo da tutti che, ogni mattina, alle cinque, entrava nella casa di Chelsea, dove vivevano Catherine ed Elisabetta per restarci un'oretta. Quando fallì definitivamente la speranza di sposare la principessa, lord Thomas sposò, in gran segreto, la sua fedele amante, ancora fresca di vedovanza reale.
Per un po' la storia venne mantenuta effettivamente segreta, ma a un certo pu
nto, per rendere pubblica la faccenda, lo scapolo più ambito del regno chiese a re e reggente il permesso di sposare la regina vedova e, solo a permesso concesso, iniziò a corteggiare in pubblico la sua già legittima moglie.
Dopo il riconoscimento ufficiale del matrimonio, Thomas Seymour si stabilì finalmente nel palazzo di Catherine, a Chelsea, nel quale viveva anche Elisabetta.
L'istruzione e l'educazione di quest'ultima, intanto, erano giunte a completamento.
Mentre Kate Ashley continuava a fare da governante ad Elisabetta, costei rappresentava per il lord ammiraglio una tentazione a cui non sapeva assolutamente resistere.
Sin dal principio del matrimonio ufficiale con la Parr, lord Thomas si comportava, nei confronti della principessa, in modo spregiudicatamente scandaloso. Appena alzatosi, ancora in camicia, era solito entrare nella camera da letto di Elisabetta per darle il buongiorno. Ma se la cosa si fosse limitata lì non ci sarebbe stato tanto da gridare allo scandalo. Non contento, il patrigno della principessa, tirava le tende del baldacchino, la salutava e le si gettava addosso, che lei dormisse o no; infine, la batteva con confidenza sulle natiche. La principessa, dal canto suo, invece di mostrarsi indignata, lo accoglieva con pazze risate e stava al gioco, nascondendosi sotto le coperte. Era, questa, una testimonianza riportata dalle dame di compagnia, le quali avevano sicuramente censurato parte dei fatti. Perfino Kate, al pari delle altre donne, si augurava che la differenza d'età tra i due sottraesse la malizia agli eventi mattutini. Fu il marito della governante, John Ashley, ad aprire gli occhi alla moglie. Aveva notato, infatti, il rossore che assaliva Elisabetta ad ogni sguardo incrociato con lord Thomas per cui, dedusse, non era certo un rapporto innocente quello instauratosi tra l'adolescente e il padrone di casa. Senonchè Kate, presa in mano la situazione, affrontò l'uomo sorprendendolo mentre baciava la ragazza, che dormiva apparentemente, per dirgli che era una vergogna per un gentiluomo entrare a gambe nude nella camera di una fanciulla. Per tutta risposta lord Thomas le rise in faccia, per niente offeso.
Dopo di che Kate, con estremo timore, si recò dalla legittima moglie, Catherine Parr, per raccontarle tutto. Con estrema costernazione, anche dalla regina vedova, tutrice di Elisabetta, ottenne per risposta delle risate, insieme a una vaga promessa di sorvegliare il marito.
La principessa, intanto, nonostante i rimbrotti di Kate, continuò a non curarsi affatto di vestirsi e alzarsi prima che il lord ammiraglio andasse a trovarla e, con sgomento della fidata governante, ciò che si svolse in seguito, fu oggetto di maggior scandalo.
Catherine sorvegliò, si, il marito, ma a quelle visite mattutine si unì anche lei, così come si unì a baci e abbracci sul letto di Elisabetta. Fu perfino vista tenere Elisabetta stretta a sé, quasi imprigionata, in giardino, per lasciare che il marito le tagliuzzasse, con la spada, il vestito. E, cosa ancor più incredibile, con gran soddisfazione di tutti e tre!
Ma la tresca non poteva durare molto perché la Parr, dopo aver annunciato di essere incinta, cambiò radicalmente atteggiamento e, da tollerante, divenne gelosissima, quindi iniziarono feroci scenate di gelosia. Il colmo dei colmi fu raggiunto quando scoprì la ragazza seduta sulle ginocchia del marito, per cui decise, finalmente, che il rapporto andava stroncato; senonchè, dopo la Pentecoste del 1548, Elisabetta venne allontanata dal palazzo di Chelsea con un freddo addio, nonostante tra le due restasse sempre una formale amicizia e uno scambio epistolare. Elisabetta fu così inviata a Chesnut, nel palazzo di sir Anthony Dench. In una delle lettere scritte alla matrigna, Elisabetta ringraziava la Parr per le gentilezze ricevute nei mesi precedenti con queste parole: “Se vostra grazia non avesse avuto di me una buona opinione, non mi avrebbe offerto la sua amicizia in maniera che gli uomini giudicano al contrario”. Iniziarono da questo momento i dubbi sulla sua verginità.
A Chesnut con Elisabetta si erano recati anche Kate Ashley e Roger Ascham, che restò per un anno quale insegnante di latino e greco. Della sua allieva l'umanista scrisse poi: “la sua mente non ha alcuna debolezza femminile, la perseveranza è quella di un uomo, la sua memoria trattiene quello che rapidamente apprende. Parla il francese e l'italiano con la stessa disinvoltura con cui si esprime in inglese, conversa rapidamente e bene in latino, discretamente in greco…”, (ibidem, p. 29).
Anche a questa età Elisabetta dedicava molte ore al giorno agli studi, nonostante fosse venuta fuori dall'esperienza con Seymour piuttosto provata. Da allora accuserà, infatti, disturbi che la perseguiteranno per tutta la vita, come irritabilità, emicranie e depressioni. La ‘malattia’ influirà perfino sul ciclo che, da regolare, divenne irregolare. E' questa la classica situazione che, attualmente, chiameremmo "disturbi psicosomatici" e può sembrare strano che certi particolari, così personali, siano stati tramandati fino ad oggi, ma all'epoca Elisabetta era una principessa e un partito appetibile per vari pretendenti, per cui certe indiscrezioni sul ciclo mestruale di un'erede al trono erano facilmente oggetto di discussioni tra re e ambasciatori, se c'era in ballo un'eventuale proposta di matrimonio per assicurarsi una concreta discendenza.


Catherine Parr, a Londrà, partorì una bambina e morì pochi giorni dopo, divorata da un'altissima febbre. Elisabetta non partecipò alle esequie, né inviò le condoglianze a Thomas Seymour, il quale era adesso di nuovo libero, come le aveva fatto notare la governante. Kate Ashley, in effetti, non si sbagliava perché il pallino del lord ammiraglio era ancora quello di sposare la principessa, per cui il fresco vedovo affidò a Thomas Parry, amministratore di Elisabetta, il sondaggio del suo cuore, unito a quello sui beni della futura probabile regina.
Parry prese così a cuore l'impegno che si recò a Hatfield, l'allora residenza di Elisabetta, per chiederle senza girarci troppo intorno, se avesse intenzione, o meno, di sposare Thomas Seymour; alla quale domanda lei rispose: “Quando verrà il momento farò quello che Dio vorrà”. E' una risposta diplomatica, questa, che servirà a temporeggiare, arte per cui, da regina, si distinguerà sempre lungo tutto il suo regno: tenere sulla corda chiunque, temporeggiando, sarà un punto di forza della sua brillante politica interna ed estera.
Parry, per il momento, si accontentò di quella risposta, ma continuò, speranzoso, a combinare qualcosa con la governante, credendo di trovare in lei un'alleata.
Lord Thomas, intanto, continuava, per conto suo, la scalata verso il successo, precisamente in due modi: attraverso il matrimonio con Elisabetta e rendendo più difficile la vita al fratello. Corruppe, per questo il re, suo nipote, col denaro, a danno del fratello Edward. Un giorno si arrivò addirittura ad un aneddoto, che avrà il suo apice in avvenimenti gravissimi. Lord Thomas, rivolgendosi all'undicenne re, sempre per complottare contro il reggente, odiato anche dal ragazzo per la sua spilorceria e la sua severità, gli disse: “Forse vostro zio non vivrà a lungo”, al che il nipote impulsivamente gli fece di rimando: “Sarebbe meglio che morisse”.
Il risultato di tali eventi farà poi frullare, nella testa del lord ammiraglio, il progetto di un colpo di stato, che prevedeva, naturalmente, l’inclusione di Elisabetta. Il suo piano era conquistare la mano della principessa; farsi affidare la tutela di Jane Grey dal padre, il marchese di Dorset, poiché era divenuta la quarta erede in ordine di successione, per farla sposare al re; quindi rapire Edoardo e fare celebrare il matrimonio, in gran segreto.
A tradirlo, la fatidica notte del rapimento, fu lo spaniel del re, che, di guardia al suo padroncino, si mise ad abbaiare per difenderlo, giusto quando lord Thomas era già giunto alla porta della camera del nipote. Accorsero, quindi, le guardie; la congiura fallì miseramente e Thomas Seymour venne arrestato e imprigionato nella Torre.
La caccia ai complici coinvolse anche Kate Ashley e Thomas Parry, accusati di complottare insieme a lui, favorendo il matrimonio con la sorella del re.
Elisabetta, invece, a colui che fu incaricato di interrogarla per il misfatto, diede del filo da torcere, tanto che sir Robert Tyrwith disse poi di lei, che era un vero e proprio enigma, coi suoi continui dinieghi anche se, scrisse al reggente: “le leggo in faccia che è colpevole”.
Vennero lanciate le insinuazioni più disparate, perfino quella che voleva Elisabetta incinta di lord Thomas per cui, offesa a morte, la principessa si era rivolta al reggente, chiedendogli di comparire davanti al consiglio per difendersi da quelle vergognose calunnie.
La verità sul complotto venne a galla grazie alle confessioni di Parry e di Kate Ashley. Così Elisabetta fu affidata, in assenza della Ashley, a lady Tyrwith, del quale cambio la ragazza si lamentò ancora inviando una seconda lettera al reggente, nella quale sosteneva, gentilmente, che le era sgra
dito l'incarico della nuova governante solo per la manifesta sfiducia dimostrata nei suoi confronti, tanto più che era sorella del re. Al consiglio, infine, chiese di proclamare il divieto di diffamarla ancora, se non era proprio possibile punire coloro che l'avevano calunniata prima. Questa richiesta, meno pretenziosa della precedente, fu, invece, accolta e soddisfatta.
A Seymour, intanto, era stata vietata la possibilità di difendersi, e venne imputata la decapitazione.
Elisabetta non si curò mai di implorare la grazia per lui, il quale le aveva inviato un messaggio disperato affinché intercedesse; e, il giorno dell'esecuzione, commentò con indifferenza: “Oggi è morto un uomo di molto spirito, ma di poco giudizio”. Anche in questo caso la carica emotiva venne scaricata sui soliti disturbi psicosomatici, che, all'epoca, erano considerati una grave malattia. Il reggente perciò si mosse a compassione e le rinviò ‘Kat’, scarcerata proprio in quei giorni, alla quale fuoriuscita fece seguito quella di Thomas Parry, riabilitato nelle sue funzioni.