DIRITTI D'AUTORE

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domenica 30 dicembre 2007

HENRY THE EIGHTH

Preambolo
Altra mia grande passione, oltre la letteratura, è la storia, in particolare quella inglese, sempre fosca e spietata, geniale e sanguinaria. Chi, quindi, più di un Riccardo III Plantageneto, un Enrico VIII Tudor e una Elisabetta I, degna figlia del precedente, possono occupare un posto di primordine, come quello, tra i miei interessi, che non sia degno di essere illustrato qui? E’ proprio di uno di loro che voglio trattare in questo rapporto: voglio esporre, infatti, la figura leggendaria del più discusso dei sovrani Tudor, Enrico VIII, un leone del pre-rinascimento, riformatore d’eccezione che diede vita all’assetto religioso-politico dell’Inghilterra contemporanea, che in questo bel libro è affrontato in maniera superlativa e obiettivissima, ma allo stesso tempo divertente e frizzante, dimostrando che la storia può essere anche piacevole raccontata nel modo giusto.

Che cosa può venir mai in mente quando si nomina Enrico VIII?
Le sei mogli di cui due (cugine) decapitate?
Il clamoroso Scisma della Chiesa Anglicana?
La grassezza tronfia e il dispotico egocentrismo?
Enrico VIII non era solo questo.

Enrico VII Tudor era il re che aveva posto termine alla sanguinosa Guerra delle Due Rose, tra le casate pretendenti il trono, i Lancaster, a cui egli apparteneva e gli York a cui apparteneva la moglie Elisabetta.
Enrico VII non temeva di perdere il regno perché con la sua figliolanza si era assicurato la discendenza in linea diretta, avendo ben due figli maschi: Arturo, il maggiore ed erede al trono, ed Enrico, secondogenito destinato alla Chiesa…Sì, sì, avete letto bene, destinato alla Chiesa Romana a cui allora apparteneva ancora l’Inghilterra.

Non voglio qui soffermarmi su ciò che Enrico VIII avrebbe fatto se fosse diventato prelato (e un potente prelato, essendo figlio e fratello di re). Non è questa la sede. Voglio, invece sottolineare che, per giudicare un personaggio tanto discusso, bisogna tener presente anche gli anni di formazione giovanile, gli studi compiuti, ecc., non giudicare solo ciò che è stato e che ha fatto da re.

Enrico VIII
Nato a Greenwich, presso Londra nel 1491 (un anno prima della scoperta dell’America da parte di Colombo e della data ufficiale in cui si riconosce la nascita dell’età moderna), Enrico diede subito prova di essere, al contrario di suo fratello Arturo, un ragazzo intraprendente, ottimo studente, eccellente atleta e musicista. Un principe con tutte le carte in regola per diventare re, sin da ragazzino. Cosa che cominciò a dimostrare a 11 anni quando, nel 1503, dopo la morte del fratello maggiore, divenne erede al trono e fu nominato Principe di Galles; e più tardi, nel 1509, quando divenne re, alla morte del padre, ereditando un ingente tesoro reale e una corona sicura.
Il giovanissimo Enrico era allora benvoluto da tutti, stimato dai nobili e dal popolo, che lo aveva soprannominato “il re ragazzo”. L’Inghilterra aveva, dopo generazioni, per la prima volta, un sovrano riconosciuto da tutti, salito al trono senza contestazioni o ribellioni.
Allora però l’Inghilterra era un regno piuttosto isolato e povero di risorse naturali, niente a che vedere con lo “splendido isolamento” di vittoriana memoria, né era la minima parte della potenza che, solo qualche decennio più tardi, sarebbe divenuta grazie alla seconda regina. A Nord c’era sempre la minaccia scozzese, antica rivale e alleata della Francia, a sua volta, nemica storica dell’Inghilterra, per cui le prime cose a cui provvedere, secondo il novello re, erano proprio queste.

Contornatosi di potenti ministri, come il cardinale Thomas Wolsey e gli Howard, Enrico VIII riuscì in molti dei suoi intenti, compreso quello di sottomettere la Scozia!
E, naturalmente, ora che il giovane Tudor era diventato sovrano a tutti gli effetti, aveva bisogno di una moglie che gli assicurasse la discendenza al trono. E chi meglio della vedova del fratello poteva assolvere tale regale incombenza?

L’11 giugno 1509, a 18 anni, re Enrico sposò la principessa spagnola Caterina d’Aragona, di cinque anni maggiore di lui, a cui era promesso da sette anni, e che lui amava già, corrisposto in segreto, da ben oltre.
Caterina, o Catalina, era l’ultimogenita dei due potenti sovrani spagnoli, Isabella di Castiglia, detta la Cattolica (quella che promosse i viaggi di Cristoforo Colombo) e di Ferdinando d’Aragona, i quali, grazie al loro matrimonio, avevano sancito la definitiva unità della Spagna e assicuratosi uno stato cristiano con la scacciata dei Mori e la coatta conversione al Cristianesimo di costoro e degli Ebrei presenti nel Paese.
In teoria, la vedova di un fratello non era sposabile, secondo la religione, ma Enrico, grazie ad una dispensa papale, riuscì a raggirare l’ostacolo, tanto più che la stessa principessa aveva dichiarato, dopo la morte del primo marito, il principe Arturo, di “esser ancor fanciulla”, cioè illibata, cosa confermata da Enrico stesso, che era solito vantarsi di ciò, anche se anni dopo cercò di far passare per ‘sbruffonate” queste sue affermazioni giovanili, pur di rompere il matrimonio con Caterina a favore di Anna Bolena.
Con questo matrimonio l’Inghilterra si alleò con il re di Spagna, contro la Francia. Infatti, nel 1513, conclusa una vittoriosa campagna contro la Francia, come ritorsione, la Scozia dichiarò guerra all’Inghilterra proprio mentre lui era ancora sulla terraferma.
Il giovane e lungimirante Enrico però, sposando Caterina, aveva visto giusto, perché la principessa spagnola, lasciata come reggente durante la campagna francese, sapeva svolgere bene il suo lavoro. Caterina, dai suoi illustri genitori, aveva ereditato, infatti, l’avvedutezza, il sangue freddo necessario a regnare, pur essendo in tutto e per tutto una donna pre-rinascimentale, timida e graziosa, educata al dovere di essere una buona moglie e una buona madre di tanti figli sani…che non riuscì mai a dare al marito.
Fu proprio questa la causa che allontanò progressivamente Enrico da lei. Pur essendo una donna fertile, Caterina non riuscì mai a dare un erede maschio vivente al re. Molte furono le gravidanze giunte al termine, due delle quali erano addirittura maschi nati vivi, ma o per una debolezza congenita, o perché così era destinato, delle creature che Caterina partorì solo una si salvò e sopravvisse: Maria, la quale successe, poi, al fratellastro Edoardo VI, dopo la morte di costui, e che fu denominata ‘la sanguinaria’, a causa delle feroci persecuzioni degli anglicani a favore del ripristino della Chiesa Cattolica. Ma questa è un’altra storia.


Anna Bolena
Mentre Enrico si dilettava in compagnia delle dame di corte, da una delle quali, Bessie Blount, ebbe perfino avuto un figlio maschio, illegittimo naturalmente (Henry Fitzroy), alle spalle di Caterina, intrecciò l’ennesima relazione (con Maria Bolena) che lo avrebbe portato, in seguito, dritto dritto tra le braccia di colei che sarebbe divenuta la sua seconda moglie: Anna Bolena, sorella della prima.
Maria era stata allontanata dal talamo reale a causa della gravidanza che stava portando a termine. Pare anzi che il figlio nato, un maschio, fosse proprio di re Enrico e non di suo marito William Carey, al quale bambino fu poi dato proprio il nome del re.
Era usanza dell’epoca isolare le puerpere, presenti a corte, in un appartamento apposito da cui sarebbero venute fuori solo dopo il parto. E’ proprio durante questa gravidanza di Maria che si fece avanti Anna, sempre spronata dai potenti familiari Bolena e Howard.
Anna, fingendo ravvedimento e maturità, una volta entrata nelle grazie del re, per rivalità con la sorella, per sete di potere e per una naturale malizia, riuscì nell’intento di scacciare la legittima regina, Caterina d’Aragona, dopo vent’anni di felice matrimonio, farsi sposare da Enrico e arrivare alla massima carica femminile dell’epoca, nell’isola: sovrana d’Inghilterra.
Tutto il resto è vicenda nota.

Il divorzio da Caterina; la scomunica del Papa con la conseguente fondazione della Chiesa Anglicana (Atto di Supremazia, 1533) e tutta la serie di mogli decapitate o ripudiate, per non aggiungere le esecuzioni capitali di numerosi membri della corte, compreso il fratello di Maria e Anna, Gorge, accusato di alto tradimento e sodomia. Per non parlare di politici eccellenti, come il grande umanista Thomas Moore, che si era dichiarato contro il divorzio da Caterina, oltre che apertamente rifiutato di riconoscere, nella stessa persona di Enrico, il capo dello Stato e il capo della Chiesa, e il cardinale John Fisher. Lo stesso Enrico che tra il 1511 e il 1513 aveva aderito alla Lega Santa col papato contro la Francia e che, nel 1521, confutò con vigore e abilità, a favore della Chiesa Cattolica, le dottrine luterane con la “Assertio septem sacramentorum”, meritandosi i titoli di Defensor Fidei e Principe della Cristianità.
Enrico che, pur divenendo sempre più autoritario, non fu mai un tiranno, poiché governò più con la persuasione che con la prepotenza e il terrore.
Quanto si era accanita la sorte contro di lui.
Il destino politico di questo sovrano è sempre stato strettamente legato alle vicissitudini sentimentali a causa della preoccupazione che lo assillava, continuamente, per il futuro della dinastia, esigenza che lo portò ad agire con leggerezza nei confronti della seconda moglie, quando ordinò la sua decapitazione, sempre per alto tradimento…una regina che veniva decapitata per ordine del proprio marito, era la prima volta che accadeva! Ma ciò era giusto per far posto alla terza che aspettava in sordina il suo turno: Jane Seymour fu l’unica dell’intero “corpo di ballo muliebre” tudoriano ad avere la fortuna di dare al re un figlio maschio vivente che le sopravvisse, perché lei morì poco dopo aver dato alla luce il futuro Edoardo VI.
Certo non si può negare che Enrico VIII non fosse un uomo dal robusto temperamento passionale, lo dimostrano le numerose amanti a corte e le successive donzelle su cui metteva gli occhi ogni volta che era libero di riammogliarsi, ne è testimonianza il quarto matrimonio con Catherine Howard, cugina di Anna Bolena, la quale a soli 19 anni subì la medesima sorte della parente, sempre per lo stesso motivo. Ma la causa era sempre la stessa: la discendenza.
L’ultima moglie, Catherine Parr, togliendo Anna di Cleves, la principessa tedesca brutta come il debito, ripudiata quasi immediatamente dopo il matrimonio, fu per Enrico VIII più una compagnia per le sue stanche membra che per il tarlo fisso dell’erede. Il re, ingrassato fino all’inverosimile, era solito, infatti, giacere su un divano o sul trono, quando ormai la salute lo aveva abbandonato quasi del tutto, lasciando la gamba gottosa in grembo alla rginae, che gliela “custodiva” amorevolmente quasi fosse una reliquia. Tutto ciò fino alla morte nel 1547.


Dell’Enrico politico possiamo tranquillamente dire, che l’eterno contrasto con la Francia, stimolò le ambizioni europee della monarchia a favore di una vera e propria potenza marittima inglese. E non appare dunque esagerato ammettere che fu proprio Enrico VIII il fondatore di questa potenza.
Gli ultimi anni di regno di re Enrico furono caratterizzati da una progressiva evoluzione religiosa, (nella quale riapparve la tendenza protestante), economica e sociale.
I beni ecclesiastici erano stati venduti a nobili e borghesi, promuovendo per la prima volta un interessante sviluppo industriale. Ma lo sconvolgimento nei rapporti delle proprietà terriere e della diffusione delle enclosures (le recinzioni di terreni che la Chiesa lasciava usare ai contadini per il pascolo delle bestie e le piccole coltivazioni, in cambio di poco o di niente) fece scattare un inasprimento del fisco, che pesò notevolmente su questa categoria da sempre più svantaggiata, provocando uno squilibrio sociale e finanziario che più tardi si riflesse sul successivo sviluppo della storia d’Inghilterra.


Il mio punto di vista
Di fronte a questa figura così complessa di uomo prima e di sovrano poi, secondo me, non si può non provare pietà. Vittorioso nella vita pubblica e fallito nella vita privata. Enrico che amava pazzamente la vita aveva tanto a cuore una sola cosa: la discendenza.
Negata.
Egli che per vedersi assicurato un erede maschio non aveva esitato a rompere un matrimonio ventennale per un capriccio (ma anche per un erede, visto che Anna Bolena era più giovane), il quale, per ironia della sorte, si era rivelato anch’esso fallimentare.
La rabbia, l’impotenza e il dolore mai rassegnatosi di uomo e di re, lo avevano addirittura condotto a dichiarare bastarde le due figlie maggiori, Maria ed Elisabetta, le quali sopravvissero molti anni più del fratello Edoardo.

Il destino, a mio avviso, con questo memorabile sovrano non è stato clemente.
Innovatore fino alla fine, perfino sul letto di morte, volle introdurre l’ultima grande novità del suo lungo regno, nominando primo erede l’unico figlio maschio Edoardo, seconda Maria, terza Elisabetta: per la prima volta nella storia reale inglese si prevedeva al trono, anche la discendenza della prole femminile.
La grande novità stava proprio in questo. E’ da allora che in Inghilterra i monarchi non si sono più preoccupati di avere a tutti i costi eredi maschi, perché in assenza di un maschio, il trono va tranquillamente alla prima femmina nata.
Ecco così Maria I ed Elisabetta I Tudor; Vittoria di Hannover; Elisabetta II di Windsor, regina vivente e primogenita di Giorgio VI … Chissà quante altre regine vedrà ancora il Regno Unito!

Tornando a Enrico VIII, il paradosso è stato che proprio Elisabetta, la figlia della strega Anna Bolena, fu quella che raccolse la piena eredità paterna.
Ritratto al femminile di suo padre, Elisabetta Tudor, “la regina vergine”, come amava definirsi, salita al trono a 25 anni, una femmina, fu l’unica degna erede del grande re, che passò alla storia come la più grande regina che l’Inghilterra abbia mai avuto finora.

Bibliografia

1) L'altra donna del re (Philippa Gregory); ed. Sperling & Kupfer 2005
2) Il re e il suo giullare (Margaret George) ed. Tea 2 1995
3) Le sei mogli di Enrico VIII (Antonia Fraser) Oscar Mondadori 1999
4) Maria, la sanguinaria (Carolly Erickson) Oscar Mondadori 2002
5) Elisabetta d'Inghilterra. Una donna al potere (Dara Kotnik) ed. Rusconi 1984.

6) Enrico VIII. Genio e dissolutezza (Dara Kotnik), ed Rusconi 1995

mercoledì 26 dicembre 2007

IL CANTORE DI TRIESTE

Il Cantore di Trieste

Questo umile e confidenziale tributo alla poesia di Umberto Saba, limitatamente ai componimenti riguardanti Trieste, sua città natale, è solo una personalissima disamina del riscontro emotivo provato in occasione dell'incontro con la sublime poesia di questo grande poeta.


Preambolo
Mi innamorai di Trieste, pur senza averla mai vista, sin dai tempi dell'università, quando studiavo per l'esame scritto, preliminare da superare, per accedere al primo esame ufficiale orale di Letteratura Italiana. C'era da studiare tanto: in una sola volta bisognava portare tutta la storia della letteratura dei cinque anni di scuola superiore, più la parafrasi di parecchi brani poetici (tra cui quelli di Saba), la metrica, la retorica dei suddetti, oltre a parecchie altre cose.
Amando moltissimo la nostra grande e bella letteratura però, per me, fu anche un immenso piacere farlo. Umberto Saba, poi, era sempre stato tra i miei poeti preferiti dell' ‘800-‘900, insieme a Leopardi, Pascoli e Montale, ma non avevo mai avuto occasione di approfondirlo prima, essendo uno degli autori che, alle superiori, si studia sempre verso la fine dell'anno scolastico e si fa solo se c'è tempo, al massimo si tratta di Ungaretti, l'altro grande poeta-soldato, ma per Saba non ci sono speranze, se si fa, è sempre in modo spiccio e superficiale.
Avuta quindi l'opportunità di approfondirlo, anche se per obbligo, all'università, devo confessare che lo affrontai con vera gioia. E mi piacquero immensamente quelle descrizioni minuziose sulla sua tanto amata Trieste, le viuzze, il porto, la folla al mercato della città vecchia coi suoi pittoreschi personaggi e la sua << scontrosa grazia >>. Leggendo quelle poesie mi è sembrato di viverle di persona e di essere io, colei che stava a guardare quello spettacolo che toccava e faceva vibrare le corde del mio essere e del mio cuore. Ancora adesso, a distanza di anni da quell'esame, rileggere i versi sabiani su Trieste, mi provoca la stessa emozione di allora, tanto che è ormai divenuta una consuetudine.
E come non innamorarsi di un poeta che scrive versi del genere?

…. tormento oscuro
nel sognatore,
che accendendosi già le prime stelle,
qualche lume per via,
sale pensoso di chi sa che amore
e che strazio la lunga erta sassosa
della collina,
dove le case con la chiesa in cima
paion balocchi; la città operosa
sfuma nell'orizzonte ancora acceso;
ed il suo orgoglio ingigantisce, leso
dalla vita, vicino alla follia.
(Da MALINCONIA AMOROSA, in TRIESTE E UNA DONNA).

Per parlare di Trieste, però, attraverso i versi meravigliosi di questo grande poeta, così poco ricordato, bisogna, innanzi tutto, leggere le sue poesie, in particolare, quelle riunite nella raccolta TRIESTE E UNA DONNA, oltre a fare una panoramica biografica dei motivi che portarono Saba a descrivere la sua città.


L' uomo e il poeta

Umberto Saba nacque a Trieste il 9 marzo 1883. La madre, Felicita Rachele Coen, ebrea, appartenente ad una famiglia di piccoli commercianti, sposò Ugo Edoardo Poli, un vedovo di 40 anni, già padre di una bambina, che sopravviveva vendendo mobili, discendente da un' antica e nobile famiglia veneziana, gli Arrivabene, grazie ad un matrimonio combinato. Per 4000 fiorini lo "sciagurato" - come lo appellerà, in seguito, il poeta - si fece addirittura circoncidere e cambiò cognome, mentre, prima ancora che nascesse il figlio, abbandonò la moglie, per tornare alla vita gaia e spensierata di un tempo, finendo addirittura in prigione per lesa maestà, periodo coincidente con la nascita di Saba. Ciononostante, fu proprio grazie a quel "padre assassino", che il poeta ottenne la cittadinanza italiana, pur essendo nato nella Trieste dell' impero austro-ungarico.
Dopo l'abbandono del marito, la madre, rimasta sola e priva di mezzi di sostentamento, affidò il bambino ad una balia per tre anni. A lei, la seconda madre, "madre di gioia", Umberto resterà sempre grato e fedele, ricordandola spesso come custode di un paradiso perduto, nei versi di CUOR
MORITURO e del SONETTO DEL PARADISO.
La balia, una contadina slovena di nome Peppa Sabaz, avendo perso il proprio figlio, riversò, sul piccolo affidatole, tutto l'affetto e la tenerezza materna che avrebbe voluto donare al suo defunto. Senonché Umberto, più tardi, proprio per la riconoscenza nei suoi confronti, rifiutando apriori la propria paternità, cambierà il cognome Poli in quello di Saba, rendendo omaggio ad entrambe le madri, la nutrice, che si chiamava Sabaz e la naturale, ebrea, perché in ebraico la parola saba vuol dire pane.
Trascorsa l'infanzia poco felicemente, sempre privo della figura paterna e succube dell'amore per la madre naturale, piuttosto severa e austera (che lo pregherà di “non somigliare al padre”), si iscrisse al ginnasio che abbandonò poco dopo, demotivato dagli scarsi profitti scolastici, per frequentare l'Imperial Regia Accademia di Commercio e Nautica, ma, anche questa, solo per poco: si impiegò, infatti, in un'azienda commerciale e, successivamente, partì su un mercantile in qualità di mozzo.

Fin dagli anni dell'adolescenza, la poesia viene vissuta come una sorta di riscatto, una riparazione “per scontare la condanna inscritta negli ‘auspici funesti’, che avevano presieduto la nascita”. (N. Palmieri, introduzione al Canzoniere, p. XI Ed. Mondolibri- Einaudi).
In questo periodo si forma una discreta cultura letteraria da autodidatta. I suoi amori poetici si indirizzano verso Leopardi, a cui resterà sempre debitore lungo tutta la sua carriera poetica, insieme a Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Foscolo e Manzoni, e in parte D'Annunzio (di cui ammirò, in particolare, il testo intimistico e precrepuscolare del POEMA PARADISIACO (fonte: la Rete).
La madre non si mostrò mai tenera verso quell' inclinazione poetica del figlio: temeva che il suo Umberto diventasse un poeta, cosa che invece, per la fortuna di noi posteri, accadde donandoci tanta gioia con la sua straordinaria opera.
Pur avversando questa tendenza, comunque, la madre, lo indirizzò, malgrado sé, verso la poesia del Parini, vista come più costruttiva oltre che per contrastare la sua vena già così pessimista e malinconica.
L'unica, in famiglia, che capì il valore di quel ragazzo taciturno e scontroso, fu la zia materna, Regina, "dalla dolce anima di formica", la quale aveva accolto nella sua casa la sorella Rachele, dopo il precoce abbandono del marito.
Nonostante l'incoraggiamento della zia e dei pochi amici, il malinconico adolescente Saba, sarà sempre condizionato dal suo senso di inadeguatezza, oltre che dalla convinzione di non riuscire a tirare fuori il suo cruccio e ad esprimere a pieno la sua vena creativa, tanto meno l’esser compreso. Scriverà, infatti, nel 1902, a 19 anni, all'amico Amedeo Tedeschi: “Oggi sto meglio, soffro però di una grande smania creativa, ed anche nei momenti di vera gioia ho il presentimento sicuro che tutto quanto ho fatto o farò non verrà mai compreso se non dopo la mia morte, la quale, non per ambizione, ma per stanchezza di soffrire, desidero ardentemente che mi colga fra breve. Allora appena comprenderanno che io non aveva allo scrivere una semplice vocazione”. ( Ibidem, p. XI).
Saba, infatti, continuerà sempre a ricercare l'origine virulenta del suo isolamento, nella poesia e negli scritti critici riconoscendoli nell'arretratezza dell'ambiente culturale triestino di fine ‘800, nella famiglia divisa in cui era cresciuto e nelle sue origini ebraiche. Scrisse, infatti, nella STORIA E CRONISTORIA DEL CANZONIERE a p. 115, che la conseguenza delle sue origini triestine aveva dato il risultato di fare di lui un arretrato, perché, culturalmente, chi nasceva nella Trieste del 1883 era come esser nato altrove, ma nel 1850. L'Italia, lamentava Saba, in quel periodo, stava vivendo, di pari passo con il resto del mondo, esperienze stilistiche di ogni genere, mentre il mondo culturale triestino era ancora fermo al periodo risorgimentale, facendo di Trieste, una città romantica. Era, quella, l'epoca di Svevo, Slataper e Stuparich, che si lamentavano dell'arretratezza di Trieste, fino a costituire un topos nella letteratura triestina fra i secoli XIX e XX.
L'anno dopo la lettera al Tedeschi, di cui sopra, nel 1903, si inizierà a manifestare la malattia nervosa del poeta, una nevrosi d'angoscia, come venne definita all'epoca, (che lo accompagnerà per tutta la vita a fasi alterne), ma che, attualmente, definiremmo una comune depressione infantile, causa dei conflitti psicologici originatisi dall'abbandono paterno, quel padre pur tanto amato, ma anche tanto odiato, per il rifiuto nei suoi confronti, e per le pressanti richieste di una madre che non voleva assolutamente un figlio somigliante all'uomo che l'aveva abbandonata.
Le prime manifestazioni si noteranno a Pisa, dove si era trasferito per il completamento della propria formazione letteraria. Il disturbo fu generato dal timore, infondato, che un amico violinista, Ugo Chiesa, volesse vendicarsi di lui per gelosia (in quel periodo il poeta corrispondeva con la fidanzata a Trieste), “denunciandolo per alcuni versi antiasburgici, scritti anni prima”. (Ibidem, p. XII), intitolati LA SERA, uno dei pochi esperimenti poetici del Saba ventenne, che col tempo, diverrà il simbolo, secondo l'autore stesso, della conclusione della sua adolescenza poetica. Durante i successivi soggiorni fiorentini del 1905 e del 1911, pur essendo in contatto con alcuni circoli letterari e intellettuali (della rivista LA VOCE), soffrirà sempre di senso di solitudine, oltre a credersi continuamente circondato dall'incomprensione.

Gli anni della leva
Gli anni della leva a Monte Oliveto e Salerno, tra il 1907 e il 1908, saranno rievocati nei versi militari, oltre che nei sonetti dell'AUTOBIOGRAFIA, nei quali è delineato in maniera precisa e concreta, quell'isolamento creatosi dal "dono" ricevuto dal padre, chiaramente espresso ne:

IL SOGNO DI UN COSCRITTO
Ero là coi miei nuovi compagni;
là con essi seduto ad un'ingombra
tavola, quando un'ombra
scese in me, che la mia vita lontana
tenne, con la sua forza, con le sue
pene, da quel tumulto vespertino.
Centellinavo attonito i miei due
soldi di vino.

E' evidente, qui, il senso di estraneità dal resto del gruppo, così come il senso di appartenenza. Il giovane poeta militare è consapevole di appartenere ad un'altra razza, ad un'altra famiglia e lo esprime lucidamente come una fatale condanna, da cui non si potrà mai più liberare. Questo strano senso di impotenza, mai combattuta, ha avvicinato, il nome del giovane poeta autodidatta, a quello del più famoso Kafka, nella mente dei più acuti commentatori, come Debenedetti. Il mezzo ebreo triestino, era visto dal critico, in una situazione simile: le situazioni di cronaca poetica e sentimentale di Saba erano “le medesime premesse che Kafka, ebreo della Mitteleuropa, tiene introvertite nelle sue fiabe psichiche” (G. Debenedetti, Intermezzo, Mondadori, 1963, pp. 40-41).
Mentre Saba si spiegava così: “La poesia condanna chi la pratica all'isolamento, anche se alimenta un inesausto, tormentoso desiderio di integrazione”. (M. Lavagetto, La gallina di Saba, Einaudi, 1989, pp. 59-60).


La Donna di Saba
Nel 1905 il giovane poeta Umberto aveva conosciuto Carolina Wolfer, poi detta Lina, durante una breve licenza a Trieste, nel periodo salernitano. Il 28 febbraio1909, durante la ferma del congedo militare, la sposò e il 24 gennaio 1910 nacque la sua unica, amatissima figlia Paolina, detta Linuccia.
La zia Regina regalò ai due sposi, per il viaggio di nozze, una certa somma di denaro, che venne però impiegata, di comune accordo, per stampare il primo volume di versi (POESIE), su cui, per la prima volta, l'autore non si firmò più Umberto Poli, bensì Umberto Saba, pseudonimo che da allora userà sempre.
Nella raccolta pubblicata erano presenti i VERSI MILITARI (1907-08), e i versi d'amore, in cui la figura centrale è Lina, la moglie, affiancata dall'immagine materna (A MAMMA).
Questa raccolta si chiude con la famosa poesia studiata sin tra i banchi delle elementari (nei programmi pre-Moratti): A MIA MOGLIE. In questi versi felicissimi il poeta associa e, quasi identifica, l'essere umano (Lina) con gli animali più umili e mansueti dell'esperienza quotidiana:

Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra;
le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba………

E' come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio. ………

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne………

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore………

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza...

A questi versi Saba, tempo dopo, allegò un commento spiegando che la suddetta poesia, in occasione della pubblicazione, aveva suscitato allegre risate poiché risultava strano “che un uomo scrivesse una poesia per paragonare sua moglie a tutti gli animali della creazione… Ma nessuna intenzione di scandalizzare, - continuava - nemmeno di sorprendere… La poesia ricorda piuttosto una poesia "religiosa"; fu scritta come altri reciterebbe una preghiera. Ed oggi infatti la si può nominare o leggere in qualunque ambiente, senza la preoccupazione di suscitare riso…Pensiamo che sia una poesia ‘infantile’” (U. Saba, STORIA E CRONISTORIA DEL CANZONIERE, p. 140).
Se A MIA MOGLIE oggi è, forse, la poesia più famosa di Saba, i versi su Trieste la seguono subito dopo.

Nel 1911 i coniugi Saba attraversarono una grave crisi, scoppiata perché Lina accusava il marito di essere sempre distante e chiuso in sé stesso, atteggiamento che la portò al gesto estremo di abbandonarlo.
Se questa crisi danneggiò il loro rapporto di coppia, fu invece fertile per la creatività del poeta, poiché diede vita ai versi raccolti in COI MIEI OCCHI. IL MIO SECONDO LIBRO DI VERSI.
Da poco era iniziata la collaborazione con la rivista Riviera Ligure, mentre procedeva, insistente, la richiesta della pubblicazione su La Voce di Prezzolini. La qual cosa si realizzerà, nel 1912, coi NUOVI VERSI ALLA LINA, a spese dell'autore. Insieme a queste due raccolte venne aggiunta una terza inedita, TRIESTE E UNA DONNA.


Trieste e una donna
Siete mai stati a Trieste? No? Nessun problema allora, perché ci penserà il nostro caro poeta a guidarvi per i vicoletti e il porto della città vecchia. Ve lo mostrerà attraverso i magici versi della sua ineguagliabile poesia. Si, perché le composizioni poetiche di questo grande triestino sono talmente limpide e chiare, da essere trasparenti, come le acque dell'Adriatico, che bagnano quella splendida costa, oltre ad avere un pregio molto raro in uno scrittore-poeta: quello di rendere esplicito e trasmettere, così com'è, il quadro esatto della scena che è sotto gli occhi, compreso di paesaggio, mediante ‘semplici’ versi.

Leggendo le poesie di Saba su Trieste, a chi già conosce questa città, può accadere di vivere quasi un deja-vu. A chi non ha ancora avuto occasione di visitarla nel suo splendore, leggendo prima questi versi, potrà farsi un'idea molto precisa di essa e delle sue caratteristiche e vivrà il deja-vu in pieno, quando la vedrà, sentendosi disorientato di fronte ad una sensazione così forte e spiazzante, tanto da chiedersi se è davvero lì per la prima volta, oppure, le emozioni che avverte, sono dettate da vecchi ricordi accantonati nella soffitta della memoria.


E ci siamo, finalmente, ai versi dedicati a questa splendida città decantata e inneggiata da un figlio così innamorato.
Nell'Autobiografia, Saba scriverà dei versi di TRIESTE E UNA DONNA, che sono i suoi due amori: Trieste è la città, Lina è la donna. Chiarirà, quindi: “Qui la città e la donna assumono per la prima volta i loro inconfondibili aspetti; e sono amate appunto per quello che hanno di proprio e di inconfondibile. TRIESTE è la prima poesia che attesta la volontà di Saba di cantare Trieste, non solo più in quanto città natale”.
La "giovane e bianca pollastra" dei VERSI MILITARI, diviene in questa nuova raccolta, la regina, la figura femminile predominante; se prima Lina era solo un nome, adesso è, certamente, la più importante e le viene concesso il perdono, quasi obbligato, per quell' impulsivo abbandono.
Solo diversi anni dopo il fertile incontro con la psicoanalisi, Saba sarà in grado di collocare, sotto la giusta luce, la strana ambivalenza che caratterizzerà il suo amore per la moglie.
Del "romanzetto autobiografico", come definì Saba stesso TRIESTE E UNA DONNA, l'altro personaggio predominante è Trieste, con la sua "scontrosa grazia".
Ma adesso lasciamo che a parlare sia proprio lui, mediante i magici versi che seguono:


TRIESTE
Ho attraversata tutta la città
poi ho salito un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Non sembra un' immagine chiarissima, questa? Il poeta che sale a piedi una ripida viuzza, tipica di un ambiente di montagna, e, raggiunta la cima protetta e silenziosa, siede a mirare il paesaggio che si stende ai suoi piedi, da dove inizia, fin dove finisce.
E' implicito, suppongo, che tutto ciò, unito alla pace e alla tranquillità della vetta, trasmetta un senso di sollievo alle ferite dell’anima e di appagamento al cuore del poeta, proprio come al mio quando leggo i suoi versi.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore…

Trieste è vissuta come un adolescente goffo e sgraziato, ancora incapace di una consapevole gentilezza, aspetto che si ripeterà in un altro componimento della stessa raccolta, VERSO CASA, quando la paragonerà ad un ragazzo, venuto su, pur nella sua virilità adolescenziale, senza che nessuna guida lo formasse. E' riconoscibile, in questa immagine, anche l'adolescente che Saba era stato, ragazzo un po' imbranato e senza guida, aspro e vorace di affetto paterno, sempre negatogli, dal carattere chiuso e un po' scorbutico.

Trieste, nova città,
che tiene d'una maschia adolescenza,
che di tra il mare e i duri colli senza
forma e misura crebbe…

Il tema del mare poi è onnipresente e sempre affiancato a quello dei duri e aspri colli che caratterizzano la città. Se in VERSO CASA aveva paragonato Trieste all'adolescente informe, in TRIESTE la descriverà così:

Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa...

quindi il poeta s'impadronisce del panorama appena descritto:

Intorno
circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natìa.
La mia città che in ogni parte è viva
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

Il cuore si aprirà maggiormente, invece, quando si proseguirà nella lettura di CITTA' VECCHIA e ci si ritroverà di fronte ad una serie di versi che descrivono talmente bene la scena che si svolge, da poterne fare un quadro. Forse Saba, incantato da qualche scena di vita pittoresca della sua città, immortalata su tela, ha opportunamente pensato di metterla su carta, descrivendola mediante i suoi insuperabili versi.


CITTA' VECCHIA
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia…
Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove sono merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.

Osservate, la genialità intrinseca di questi versi dall'aria apparentemente semplice, i quali continuano la descrizione fedele di cosa il poeta ha sotto gli occhi.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.

Il quadro della scena di vita descritta da Saba, si è fatto, qui, più concreto e particolareggiato: in pochi, sintetici versi sono stati messi, nero su bianco, tutti i particolari della parte vecchia di Trieste, quella col porto vicino al molo Audace.
Un tale spaccato di vita consente al poeta di farne un vero e proprio inno concludentesi in modo paradossale: dove tanto più gli aspetti della vita si presentano più loschi e brutali, agli occhi dell'autore, tanto più il pensiero, di fronte ad essi, acquista la capacità di elevarsi allo stato più puro.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la vita.

Il tema del porto e del mare è ripreso ancora, in TRIESTE E UNA DONNA, nel componimento intitolato IL MOLO, luogo più fidato al mondo, dove il poeta non si sente più solo.
Il molo in questione, qui è sempre l'Audace, ma con il nome conosciuto all’epoca, porto sempre molto movimentato e pulsante di vita: è il

MOLO SAN CARLO
Per me al mondo non v'ha un più caro e fido
luogo di questo. Dove mai più solo
mi sento e in buona compagnia che al molo
San Carlo, e più mi piace l'onda e il lido?

E' questo un luogo pregno di ricordi d'infanzia del poeta, dove tutto sembra immutato e cristallizzato: ci sono i garzoni che si aggirano e aspettano il momento di partire; i sacchi sulla tolda, le casse a bordo di un veliero, tutto esattamente come tanto tempo prima.
Ma lasciamo Saba decantare il molo San Carlo attraverso i suoi stessi nostalgici versi:

Vedo navi il cui nome è già un ricordo
d'infanzia. Come allor torbidi e fiacchi
- forse aspettando dell'imbarco l'ora -
i garzoni s' aggirano; quei sacchi
su quella tolda, quelle casse a bordo
di quel veliero, eran principio un giorno
di gran ricchezze, onde stupita avrei
l' accolta folla e un lieto mio ritorno
di bei doni donati i fidi miei.

Saba immaginava, da ragazzo, di tornare, un giorno, da un lungo viaggio e di scendere da un veliero carico di ricchezze da donare ai suoi.
Ma ora, da adulto, non auspica più ad un tale ritorno. Non lascerebbe più l'estrema e amata sponda d'Italia, che si intravede dal molo S. Carlo, perché adesso si sente più che mai legato alla sua terra, ancora tormentata dalla guerra. Amore, il cui senso di appartenenza, è testimoniato praticamente così:

Non per tale un ritorno or lascerei
molo San Carlo, quest' estrema sponda
d'Italia, ove la vita è ancora guerra;
non so, fuori di lei pensar gioconda
l'opera, i giorni miei quasi felici,
così ben profondate ho le radici
nella mia terra.

Se vogliamo proseguire con un percorso panoramico di Trieste, guidati sempre dai magici versi del nostro poeta, potremo farlo attraverso altri due componimenti appartenenti sempre alla raccolta TRIESTE E UNA DONNA.

La prima, TRE VIE, è l'illustrazione di alcune vie della città, a cui il poeta era più affezionato. La prima di queste è Via del Lazzaretto Vecchio, specchio della sua tristezza, con i suoi magazzini desolati, emananti odori di droghe e di catrame. Ha un' unica nota di allegrezza: il mare, alle sue estremità.
La seconda via che s'inerpica con le sue “bellezze di cielo e contrada” è Via del Monte, luogo bello ma triste, tanto caro al poeta, che ha sepolti i suoi cari, nel vecchio cimitero ebraico delle vicinanze, oltre ad una sinagoga con cui ha inizio la via.
Ma se Via del Monte è “la via dei santi affetti”, la via della gioia e dell'amore resta sempre Via Domenico Rossetti, verde contrada suburbana, che risente sempre più del richiamo della città. Questa via, ai tempi di Saba, conservava ancora il suo fascino originario di zona di elite, dove i ricchi si erano costruiti la villa di campagna, le quali ville, nelle sere d'estate, passeggiando, era possibile ammirare con le finestre aperte vicino cui era sempre visibile qualche donzella che cuciva o leggeva.
La bellezza di questa poesia sta proprio nel crescendo di emozioni e sentimenti, dapprima lugubri, rispecchiantisi in Via del Lazzaretto Vecchio; poi più pacati e tristi, dai toni più smorzati, con Via del Monte; progressivamente più allegri e forieri di speranza con Via Domenico Rossetti, la via dell'amore per eccellenza, a Trieste, secondo Saba.

Questo percorso potrebbe idealmente continuare con l'altra poesia presa in considerazione, VIA DELLA PIETA', ma a chi volesse proseguire il percorso triestino, attraverso i versi sabiani, consiglio vivamente di leggere IL CANZONIERE, dove sono raccolti tutti i suoi componimenti poetici dal 1900 al 1954.
La POETICA di questo splendido autore è limpida e cristallina, di piacevole lettura, largamente autobiografica (ha perfino scritto dei componimenti sui canarini!), godibilissima come un romanzo in prosa e, per questa sua caratteristica, potrebbe riuscire gradita anche a coloro che sono a digiuno di poesia. E' talmente delicata e precisa da renderla insuperabile e imparagonabile perfino di fronte ad autori più famosi e gettonati, come D'Annunzio.
Bisogna provare a leggere Saba, perché, sono sicura, nessuno se ne pentirà o, almeno, si potrebbe iniziare già solo con la magia di TRIESTE E UNA DONNA


Conclusioni
Questo personalissimo contributo alla poesia "triestina" di Saba, non ha mai avuto la pretesa di andare oltre il periodo giovanile, per cui, per concludere, mi sembra doveroso aggiungere solo i dati biografici che succedettero a TRIESTE E UNA DONNA (1912).

Avevo accennato alla "malattia" che perseguitò il poeta, la nevrosi d'angoscia, cosa che curò, finalmente, alla fine degli anni '20, con Edoardo Weiss, discepolo diretto di Freud, incontro che lo aiutò a conoscere meglio le sue ossessioni e a saperle isolare, per poi purificarle, come sostenne Michael David (1966). Da quel momento Saba, sempre secondo il critico, seppe trovare, con maggior facilità, il centro della ferita su cui agire con il bisturi della poesia, fino ad ottenere i risultati che conosciamo e che amiamo. Il resto della vita è ormai arcinoto.

Dopo aver aperto, a conclusione della prima guerra mondiale, una piccola libreria antiquaria, che gestirà per tutta la vita, nel 1928, la rivista letteraria Solaria gli dedicherà un intero numero, omaggiato dai saggi di Solmi, Montale e Debenedetti.
Nel 1938, pur avendo partecipato alla prima guerra mondiale come soldato italiano, Saba fu costretto a lasciare Trieste, con la famiglia, a causa delle sue origini ebraiche, per riparare dapprima a Parigi, poi a Roma, sotto la protezione di Ungaretti, successivamente a Firenze, ospite di Montale, durante il cui periodo, pur vivendo in condizioni difficilissime, scrisse, in clandestinità, la prima parte di STORIA E CRONISTORIA DEL CANZONIERE, pubblicato poi alla fine del 1948, portando a termine, inoltre, le poesie raccolte in 1944, tra i cui testi, uno dei più famosi è IL TEATRO DEGLI ARTIGIANELLI, sul passaggio dell'Istria alla Croazia, che riporto qui, in quanto simbolo del disorientamento e dell'amarezza che accompagnò, in quegli anni, e tuttora accompagna, gli esuli di un tempo e i loro discendenti.

Falce martello e la stella d'Italia
Ornano nuovi la sala. Ma quanto
dolore per quel segno su quel muro!

Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo.
Saluta al pugno; dice sue parole
perché le donne ridano e i fanciulli
che affollano la povera platea.
Dice, timido ancora, dell'idea
che gli animi affratella; chiude: “E adesso
faccio come i tedeschi: mi ritiro”.
Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l'amico
dell'uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il cannone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.

Gli anni successivi saranno caratterizzati da tristezza e malinconia, pur avendo ottenuto grossi riconoscimenti come la laurea honoris causa nel 1953, dall'Università di Roma, in occasione dei suoi 70 anni.
Nel '54, costretto a stare fermo, avendo perduto quasi del tutto l'uso delle gambe, venne ricoverato d'urgenza all'ospedale di Trieste. La moglie Lina, già gravemente malata, era morta il 25 novembre 1956, lasciando nel marito e nella figlia Linuccia, un vuoto incolmabile, che portò il poeta a contemplare l'idea del suicidio, cosa che non compirà mai, perché la morte lo coglierà prima, esattamente il 25 agosto 1957, appena nove mesi dopo Lina.
Dal giorno della morte della moglie, fino alla sua, Saba non scrisse più in versi. Lasciò, come testimonianze, solo lettere e un romanzo incompiuto, dal titolo ERNESTO, il cui luogo di ambientazione è, prevedibilmente, Trieste, con la sua atmosfera tipica “resa in un singolare impasto linguistico-dialettale”. Atmosfera che accompagna “i turbamenti erotici del protagonista adolescente” (fonte: la rete).
Di Saba esiste, tra gli scritti della vecchiaia, oltre ad ERNESTO, anche un volume che raccoglie, complessivamente, le sue prose: SCORCIATOIE E RACCONTINI (1946), e RICORDI-RACCONTI (1956), di carattere autobiografico.

Giunta al termine di questo viaggio fantastico nella Trieste sabiana, rinnovo il mio invito all’ accostamento a questo, ancor poco diffuso, poeta, augurando, intanto, a tutti i lettori, buona lettura e…buon viaggio: Trieste vi aspetta!

lunedì 24 dicembre 2007

IL MIO POETA DEL CUORE

UMBERTO SABA
In una posizione isolata, estraneo alle suggestioni del simbolismo e, solo in età matura, incline a raccogliere alcuni motivi propri degli ermetici, si colloca Umberto Saba.
Di madre israelita e padre italiano e cattolico, nasce a Trieste nel 1883. Per motivi economici e familiari non conduce a termine gli studi.
Nel 1908 compie il servizio militare a Salerno (era cittadino italiano, benché nato in territorio asburgico); ne sono testimonianza i VERSI MILITARI.
A Trieste trascorre gran parte della sua vita, eccetto brevi soggiorni a Firenze, Bologna e Milano.
Ancora a Trieste gestisce, per anni, una libreria antiquaria e partecipa volontario alla prima guerra mondiale.
Negli ultimi anni del Fascismo subisce le persecuzioni razziali e ripara a Parigi, Firenze e Roma, dove rimane nascosto in casa di amici, tra cui Montale e Ungaretti.
Muore a Gorizia nel 1957.


La poetica
La vocazione poetica di Saba si delinea nettissima, quasi istintiva, fin dalla gioventù: le scelte formali e stilistiche appaiono subito decise, in una tendenza ad una semplicità e una chiarezza che contrastano con gli altri grandi poeti europei contemporanei. Il suo gusto non piacque a Papini (della Voce), né aveva attirato l’attenzione di D’Annunzio. Rimase ignoto alla Ronda; Solaria solo nel 1928 gli dedicò un intero numero.
E’ ormai opinione comune della critica che il linguaggio di Saba debba essere riconnesso ad antecedenti classici come Petrarca e Leopardi. Né l’accostamento ai Crepuscolari può farsi, poiché costoro usano i loro toni dimessi come un’arma ironica, contro l’egotismo dei decadenti, mentre Saba si rivela sempre serio, dolce e grave. La poetica sabiana si compendia in alcuni versi famosi della raccolta MEDITERRANEE:


Amai trite parole che non uno
Osava. M’incantò la rima fiore/amore
La più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo
Quasi un sogno obliato che il dolore
Riscopre amica…

Qui si rivela la coscienza di una poesia aliena da estetismi e intellettualismi, volta al recupero dei significati più intensi delle cose semplici, dei sentimenti consueti. Ciò non vuol dire che la sensibilità di Saba muova nell’ambito della tradizione; al contrario, egli conosce bene la pena individuale e storica che si annida nell’animo dell’uomo del 900, i motivi dell’inquietudine esistenziale, i dolori profondi, gli effimeri e illusori conforti. Però questi temi vengono proposti diversamente dal linguaggio analogico-sintetico di Montale e Ungaretti, suoi grandi amici e colleghi. Il movimento iniziale della poesia sabiana è, di solito, prosastico, discorsivo, si distende poi in un ritmo più arioso, fino a giungere al canto, ora tenero, ora commosso, spesso doloroso.
In questa sua apparente felicità espressiva, che non ha un carattere istintivo, non colto, Saba si serve, con uguale familiarità, di forme poetiche tradizionali come il sonetto, l’endecasillabo, sia di una più libera alternanza di metri, di rime ardite e dissonanti, sia nelle raccolte dell’età matura, di un linguaggio sintetico svincolato da ogni metrica.

Molteplici sono i motivi che ricorrono, in oltre mezzo secolo, nell’opera di Saba. Nelle raccolte che giungono fino al 1930 egli intende la propria poesia come un modo per accostarsi al mondo e per identificarsi con esso. Il suo angolo visuale è Trieste, a lungo vagheggiata e descritta nella sua “scontrosa grazia”, come punto di congiunzione tra il poeta e l’umanità. Così pure felicissimi sono i versi in cui egli associa e identifica, quasi, l’essere umano con gli animali più umili e mansueti dell’esperienza quotidiana (nelle poesie ‘A Mia Moglie’ e ne ‘La Capra’, da TRIESTE E UNA DONNA).

Più tardi l’esperienza di Saba si complica e si intorbida con l’assimilazione di temi psicoanalitici, dovuti all’influsso di Freud, con l’insinuarsi di una dolorosa sensualità.
Nelle ultime raccolte, infatti, si accentua la tristezza del poeta: la tragedia della guerra; le persecuzioni razziali si riflettono, nei versi, in toni sempre più amari ed essenziali, alimentati anche dal sentimento dell’incombente vecchiaia, dalla riflessione sull’esistenza trascorsa e dalla coscienza di una condizione di sconsolata solitudine.


L’opera di Saba consta di numerose raccolte, in massima parte incluse nelle tre edizioni del CANZONIERE (1921, 1945, 1961).
Tra queste sono da ricordare maggiormente:

1) CASA E CAMPAGNA (1909)
2) TRIESTE E UNA DONNA (1910-12)
3) LA SERENA DISPERAZIONE (1913-15)
4) COSE LEGGERE E VAGANTI (1920)
5) L’AMOROSA SPINA (1920)
6) CUOR MORITURO (1925-30)
7) PRELUDIO E FUGHE (1928)
8) IL PICCOLO BERTO (1929-31)
9) PAROLE (1934)
10) ULTIME COSE (1944)
11) MEDITERRANEE (1946)
12) UCCELLI (1950).


La prosa di Saba
Umberto Saba non lasciò molto della sua opera in prosa, perché era essenzialmente un Poeta, un vero Poeta con la P maiuscola, ma si possono gustare, allo stesso modo, alcune sue lucidissime produzioni nel volume SCORCIATOIE E RACCONTINI (1946), oltre ad un singolare saggio su sé stesso LA STORIA E CRONISTORIA DEL CANZONIERE (1948). Ma lasciò anche un romanzo incompiuto, ERNESTO, il cui luogo di ambientazione è, prevedibilmente, Trieste, questa città tanto amata, quanto odiata dal poeta, una città in cui regnano ancora il sapore e l’aria mitteleuropea, grazie alla posizione geografica occupata, e grazie alle numerose minoranze etniche che la abitano tuttora.


CONSIGLIO vivamente, a chi non l’abbia già fatto, di leggere la poesia di Saba, perché non è di difficile intendimento. Il suo versificare è molto scorrevole e lineare, leggero e piacevole e non cade mai nella noia o nella ripetitività, né nella pesantezza della poesia cosiddetta “dotta” e ridondante di certuni poeti rintracciabili perfino nel 900. Oserei dire che è una poesia per tutti, tanto è accessibile e di facile lettura.


UNA CURIOSITA’
Recentemente sono tornata a Trieste, dopo qualche anno, per ripercorrere le tappe di questo grande poeta che ammiro immensamente, e recandomi nella sua vecchia libreria antiquaria, dov’è rimasto tutto tale e quale, ho avuto il grande piacere di conoscere Mario Cerne, figlio dell’assistente di Saba, a cui il poeta vendette la libreria quando fu costretto a nascondersi durante le persecuzioni razziali. In quella libreria nulla è cambiato, c’è perfino la stessa scrivania di formica, dietro cui il poeta era solito sedere sulla sua sedia, mentre era in negozio, fumando la sua famosa pipa. Esistono delle foto in proposito, fatte durante un’intervista, cosa che mandava fuori dai gangheri questo sublime, quanto scontrosissimo poeta, nelle quali è anche possibile notare il suo cipiglio arcigno.
Saba non amava i fasti, le folle, stare in mezzo alla gente e parlare con loro, ma se il prezzo di tutto ciò sono stati i capolavori che ha lasciato, non credo di esagerare ammettendo che lo scotto che hanno pagato i suoi contemporanei, con gli sgarbi subiti, è valso il risultato di quello che conosciamo, cioè ottenere la genialità di una tale ineguagliabile opera.

Le opere di Saba sono trovabili in molti formati editoriali. Per una maggior praticità sono stati creati due volumi dalla Mondadori, in cui è possibile trovare le poesie, cioè la versione definitiva del CANZONIERE e quello delle prose (che io possiedo, l’altro, quello di poesia, è dell’Einaudi).
Che altro dire? Si capisce che mi piace molto Saba?

Inizia qui il mio percorso letterario tra gli autori più o meno grandi, ma tra i più trascurati rispetto agli altri più famosi. Saba è uno di quelli, cioè uno dei poeti che, pur essendo un vero e proprio Gigante della letteratura italiana, non viene tanto calcolato, semplicemente perché ha avuto il “crudele” destino di essere inserito nei Programmi scolastici di quinta superiore alla fine dell’anno, cosa che comporta un frettoloso, quanto superficiale accostamento alla sua poesia.
Mi è capitato addirittura di sentire da qualcuno, con qualche anno in più, di non aver mai sentito parlare di Saba. E chi l’ha detto non è certo un ingenua e sprovveduta persona a digiuno di ogni tipo di cultura, tutt’altro!
A presto e, intanto, buona “degustazione” di Saba a tutti.