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venerdì 12 aprile 2013

Brothers (Yu Hua)

Rieccomi dopo ben un anno!
Mi scuso per l'assenza, ma non ho il dono dell'ubiquità, che mi permette di essere in luoghi diversi e fare più cose contemporaneamente. Prometto, però, di aggiornare, da oggi in poi, questo blog, in modo più puntuale, iniziando dalla recensione di questo ottimo libro di Yu Hua, intitolato BROTHERS.
 
Da tempo volevo recensire questo libro, ma la poderosità, l'articolazione che lo caratterizza e certi episodi contenuti, uniti alla mia cronica mancanza di tempo, mi hanno sempre trattenuta dal farlo… nonostante il comico-grottesco che predomina in questo romanzo...

È difficile parlarne, soprattutto dopo aver visto certe atrocità...

BROTHERS di YU HUA

Il romanzo inizia con una triste riflessione del protagonista già adulto maturo - che non riporterò per non rovinare la sorpresa -, quindi procede da quando è iniziata la sua fama, Ma anche la sua fortuna, partita da un evento piuttosto imbarazzante, ma occasionale, non da habituè: spiare il didietro delle donne ai bagni pubblici...

Li Testapelata ha 14 anni, l'aria da brigante e una bella pelata in testa, che sua madre, vedova, gli fa sempre fare per risparmiare e non portarlo dal barbiere, ogni mese, per accorciargli i capelli: la soluzione più pratica e duratura a Li Lan (la madre) è sembrata essere solo questa: radere completamente i capelli al figlio per prolungare l'attesa di tornare dal barbiere e spendere meno soldi. Da allora, Li Guang sarà per tutti Li Testapelata.

Il famoso giorno dei bagni pubblici, Li Testapelata era lì solo per coincidenza. Non era sua abitudine spiare i deretani delle donne, però chissà perché, quel giorno, gli era presa la smania di farlo e si era arrampicato, tenendosi con i piedi in su, alla parete per avere la faccia giusto in direzione dei sederi che espletavano i loro bisogni. Ed era stato in quel momento che aveva visto cinque varietà diverse: "un sederino, un culone, due culi secchi e un culetto né grosso né piccolo (…) a lui piacque quello né grosso né piccolo. Ce l'aveva proprio dritto davanti agli occhi, era il più tondo e sodo dei cinque, tondo come la luna piena, e appena più su si vedeva spuntare il coccige, messo in evidenza dalla pelle ben tesa" (pag. 9). Ma, proprio quando stava per spingersi oltre e godere dello spettacolo gratuito, ecco che, giusto in quel momento, era entrato di corsa un ventenne di nome Zhao Shengli, il quale "vedendo uno con la testa e il busto infilati nella latrina, capì in quattro e quattr'otto di che cosa si trattava. Agguantò Li Testapelata per la maglietta, da dietro, e lo tirò su come se stesse cavando una rapa dalla terra" (ibidem).

 
Pur esposto al ludibrio della pettegola cittadina nativa, Liuzhen, Li Testapelata seppe volger in fortuna quell'apparente malasorte, nonostante dovesse sopportare il detto, in bocca a tutti: “tale padre, tale figlio”. Sì, perché il padre di Li Testapelata, era invece un habituè dei bagni pubblici, ed era morto proprio quando stava osservando le donne che espletavano i loro bisogni. Un tipo grande e grosso, vedendo spuntare dei piedi, al posto della testa, da dietro il paravento, aveva urlato spaventato, terrorizzando il padre di Li Testapelata, che aveva mollato la presa, tenuta faticosamente con le mani, ed era scivolato nel profondo canale di scolo, dove tutti i liquami lo avevano soffocato entro breve tempo, per non parlare del modo in cui si era lordato. A tirare fuori il corpo da quell'obbrobrio puzzolente era stato proprio il tizio che aveva urlato, un insegnante di educazione fisica delle medie, il quale, anni dopo, diverrà il secondo marito di Li Lan, la madre di Li Testapelata.

Allora, Li Testapelata non era ancora nato, ma a 14 anni, cioè quando ripeté la bravata di suo padre, alla gente di Liuzhen parve scontato etichettare il ragazzo col detto “tale padre, tale figlio”, umiliando ancor più il già provatissimo spirito della povera madre.

Sarà, invece, proprio grazie a questo episodio, che Li Testapelata imparerà, in modo più deciso, a volgere il caso dalla proprio parte.

Sì, perché uno dei sederi visti in occasione di questo episodio apparteneva alla ragazza più bella di Liuzhen, cioè la diciassettenne Lin Hong, ambita da tutti i cittadini di sesso maschile, che avrebbero dato chissà che per essere al posto di Li Testapelata!

E, proprio grazie a questa opportunità, il precoce quattordicenne, inizialmente ingiuriato e rimproverato, diverrà chi detterà le condizioni a suo favore: tutti gli uomini, vecchi o giovani che fossero, volevano sapere com'era il deretano della bella tra le belle e cos'altro ancora avesse visto quel moccioso bastardo di Li Testapelata!

Per saperlo però non c'era altro modo che pagargli da mangiare, altrimenti lui non parlava. Non aveva alcuna intenzione di vuotare il sacco, a meno che non si fosse trovato davanti a un invitante piatto di spaghetti ai tre sapori. A nulla valeva convincerlo a mangiarsi (e accontentarsi) di un piatto di spaghetti semplici: lui puntava, da subito, a quello ai tre sapori, i più costosi e i più saporiti, perché avevano dentro pesce, carne e gamberetti e costavano tre jiao e cinque centesimi, mentre gli spaghetti semplici, appena 9 centesimi.

Mercanteggiando col didietro di Lin Hong, Li Testapelata, da magro ed emaciato che era, per la povertà e la fame, riuscì a mangiare ben 56 ciotole di spaghetti ai tre sapori acquisendo un aspetto pasciuto e soddisfatto.

A causa di quell'episodio, era infatti venuta fuori la sua vena di mercante: ad appena 14 anni, aveva venduto a ben 56 uomini notizie segretissime sul lato B della più bella di Liuzhen, che gli avevano fatto dimenticare cosa volesse dire aver fame, oltre ad affibbiargli il nomignolo di Chiappetta, presto trasformato – grazie allo spiccato senso per gli affari dimostrato – in Il Re delle Chiappe.


IL FRATELLO
Li Testapelata però non è l'unico protagonista del romanzo. Se si chiama BROTHERS, in effetti, è proprio a causa della presenza di un altro bambino, Song Gang, il quale, in realtà, non è suo fratello di sangue, ma fratellastro, perché figlio del secondo marito della madre, Song Fanping. L'accordo e l'affiatamento che però lo unirà per sempre a Song Gang, stabilirà, tra i due protagonisti, un legame ancor più forte di quello del sangue.

Song Fanping era lo stesso uomo che aveva fatto spaventare il primo marito di Li lan, quello che aveva lanciato un urlo vedendo due piedi spuntare dalla tramezza posta tra i bagni maschili e quelli femminili; lo stesso uomo che si era lanciato nel canale di scolo, - quando il malcapitato vi era finito giù -, per salvargli la vita, invano. Sette anni dopo, rimasto vedovo con un figlio di un anno più grande di Li Testapelata, Song Fanping e Li Lan, per una serie di coincidenze si sposarono innamorati davvero l'uno dell'altra. D'altronde di Song Fanping non ci si poteva che innamorare.

Song Fanping era un insegnante di educazione fisica alla scuola media di Liuzhen. La sua stazza imponente e l'altezza (1 metro e 85), facevano di lui un omone dall'aspetto temibile. E, in effetti, non ci si sbagliava. Quello che però nessuno intuiva, al vederlo, era il suo ottimo carattere, la sua solarità e cordialità sempre ben disposta verso tutti.

Innamoratosi, corrisposto, di Li Lan, madre di Li Testapelata, aveva vissuto un intenso anno d'amore con la sua seconda compagna, fino a che non l'aveva convinta a ricoverarsi all'ospedale di Shanghai (dove viveva la sua sorella maggiore) per curare il suo terribile mal di testa cronico, scoppiato in seguito alla morte umiliante del suo primo marito. Prima di farle prendere la corriera, però a Song Fanping era venuta in mente un'idea: recarsi dal fotografo e farsi fare una foto di famiglia con loro due e i rispettivi bambini. Quella fu l'ultima volta che i due sposi si videro in vita. Una brutta e irragionevole era stava per piombare su tutta la Cina: la Rivoluzione Culturale!


Siamo quindi nel 1966, anno in cui la quarta moglie di Mao, Jiang Qing, ordinò, in nome della Rivoluzione Proletaria orribili torture ai danni degli appartenenti alle classi intellettuali e di proprietari terrieri, i quali venivano spesso torturati e sfregiati prima di morire, solo per esser stati, un tempo, ad esempio, piccoli proprietari, proprio come lo era stato, molto tempo prima, il padre di Song Fanping. Per questo, pur dopo una trionfante marcia per tutta Liuzhen, con un'enorme bandiera rossa in mano, cantando canti rivoluzionari e ammirato da tutti, appena il giorno dopo, Song Fanping si ritroverà messo al bando e costretto a portare il solito cappello di carta a punta, e il cartello di legno appeso al collo, indice di qualcosa che non quadrava: era, infatti, risultato figlio di proprietario terriero, nonostante suo padre, da decenni, avesse spartito la sua piccola proprietà con i contadini che, una volta, lavoravano per lui.

Nonostante l'autocritica, nonostante la destituzione da insegnante, Song Fanping capiva che il mondo dei suoi figli non doveva essere turbato. Si era per questo impegnato, in tutti i modi, a far continuare a vivere i due bambini nel loro mondo dorato, le cui brutture esterne non erano ancora per loro facilmente comprensibili, per questo, riteneva, dovevano restare fuori.

Per una serie di coincidenze abbastanza precise, Song Fanping non vide più sua moglie, né poté più accudire i due bambini, poiché la stessa mattina che Li Lan doveva tornare da Shanghai – dal cui ospedale non aveva ricavato niente, perché i medici erano stati tutti arrestati -, fu inseguito e picchiato furiosamente dalle Guardie Rosse, fino a morirne.

Il suo corpo fu lasciato lì dov'era caduto, per strada, impossibile da riconoscere, tanto era malconcio, fino al sopravvenire dei bambini, che grazie al loro clamore, erano riusciti a impietosire qualcuno e convincerlo almeno a riportare a casa il loro papà...


Mi fermo qui. Non voglio né posso rivelare altri particolari, che sarebbero davvero tanti e troppo lunghi da descrivere, essendo BROTHERS un romanzo molto articolato e ricco di pittoreschi personaggi, caratteristici della pettegola e provinciale vita di una cittadina come Liuzhen. Basterà elencare solo i principali, che continueranno a popolare le vicende e la vita dei due protagonisti, in particolare di Li Testapelata. Essi si trovavano tutti nella "vivacissima Strada occidentale di Liuzhen, una viuzza dove c'erano..." (pag. 74) il gigantesco fabbro Tong, il sarto Zhang, gli arrotini Guan, il cavadenti Yu, la gastronomia di mamma Su e anche il ghiacciolaio Wang, "che strillava ai quattro venti picchiando contro la borsa frigorifera in cui teneva i ghiaccioli" (ibidem). A questi sono da aggiungere i tre ragazzi delle medie (che poi resteranno in due), che metteranno spesso le mani addosso ai due bambini e saranno presenti lungo tutto l'arco del romanzo.



BROTHERS
È la prima parte di un'unica poderosa opera, che l'editrice Feltrinelli ha voluto, qui in Italia, suddividere in due volumi.

Sin dall'inizio, si nota subito che il libro è caratterizzato da una sferzante e ironica – spesso anche grottesca – comicità. Ben poco spazio è concesso alla commozione e alla pietà, che pur trapela in certi personaggi come Mamma Su e nei due protagonisti bambini. Ma quello che colpisce di più è la facilità con cui Yu Hua riesce a passare dalla comicità più pura all'innocenza autentica dell'animo infantile, così come riesce, con leggerezza, a passare alla drammaticità storica della Rivoluzione Culturale e ai suoi assurdi propositi e castighi.

Alla presentazione della sua opera, al Salone del Libro, l'autore ha, infatti, paragonato quel periodo violento al Medio Evo europeo; ma se l'Europa ha subito e 'digerito' in diversi secoli il periodo di ferro, la Cina l'ha vissuto e fagocitato nel lampo di una sola decina d'anni, dal 1966 al 1976, coincidente con la morte dell'onnipotente Mao. Ed è su questi particolari che mi voglio soffermare un po'.

Facendo ricerche più approfondite, tra libri e web, mi è capitato di vedere su You Tube alcuni filmati di una crudeltà mostruosa: Jiang Qing che conclamava la giustizia delle torture e della morte di certi insolenti prigionieri, 'colpevoli' di essere figli di proprietari terrieri o di essere degli intellettuali deviazionisti di destra, e rappresentanti di un mondo che doveva scomparire! Una di queste pene, con conseguente condanna a morte, era la “Legge dei Mille Tagli”... adesso non me la sento di scendere nei particolari, perché è di una crudeltà agghiacciante, ma giusto per spiegare di cosa si tratta, mi limito solo a dire che i mille tagli venivano effettuati sul corpo nudo della vittima, ancora viva e pienamente cosciente, legata a un palo, fino ad arrivare alla decapitazione effettiva, preceduta dall'amputazione degli arti, che venivano fatti a pezzi già prima che questa spirasse.


Durante il Medio Evo, si sa che certe sadiche e deliberate crudeltà sono avvenute anche in Europa, ma non si spiega lo stesso il motivo per cui la gente si faceva così facilmente irretire da qualcosa che non si sapeva neanche bene cosa fosse. Mi riferisco allo strapotere e al conclamato marxismo cinese di Mao, che non era chiaro nemmeno a lui.

Quanta gente, dopo la sua morte, grazie alla pseudo-riabilitazione promossa da Deng Xiaoping, ha confessato di non aver mai capito il motivo per cui doveva esser punito e fare autocritica. Che cosa aveva mai commesso per subire soprusi come quelli noti?

È un argomento, questo, su cui Yu Hua non si sofferma molto, né si sbilancia più di tanto. Nel libro condanna apertamente la Rivoluzione Culturale e la sua violenza, ma mai in modo diretto. Col suo modo onnisciente di narrare, l'autore lo affronta in modo distaccato e dal punto di vista di spettatore esterno ed estraneo ai fatti.

Ecco qui un passo significativo ed eloquente del modo di narrare di Yu Hua.


"Dopo la partenza di Li Lan per Shanghai, da noi a Liuzhen arrivò la Rivoluzione Culturale. Song Fanping stava tutto il giorno a scuola, usciva presto e rincasava tardi, anche Li Testapelata e Song Gang uscivano presto e rincasavano tardi e passavano la giornata per strada. LE vie di Liuzhen si riempirono di fiumane di gente e di drappelli che marciavano, ogni giorno, avanti e indietro. Sempre più persone portavano la fascia rossa al braccio, avevano le spillette del presidente Mao appuntate sul petto e le citazioni del Libretto Rossosulla bocca. E sempre più persone si riversavano nelle strade a far cagnara tra urla e canti, urlavano gli slogan rivoluzionari e cantavano gli inni rivoluzionari. I dazibao, uno sull'altro, ispessivano sempre più i muri e a ogni folata di vento facevano lo stesso rumore delle foglie. Cominciarono a esserci quelli che portavano in testa cappelli di carta a punta o grossi cartelli di legno al collo, e quelli che andavano avanti e indietro strillando slogan di autocritica e sbattendo pentole e ciotole rotte. Li Testapelata e Song Gang sapevano che le persone con i cappelli di carta, i grossi cartelli di legno e le persone che sbattevano i coperchi rotti erano quelli che tutti chiamavano nemici di classe. Chiunque poteva alzare il braccio e appioppar loro una sventola, sollevare la gamba e assestargli un calcio nello stomaco, strizzarsi le narici e soffiargli il moccio nel colletto o tirare fuori l'uccello e pisciar loro addosso. Tanto quelli sopportavano qualsiasi umiliazione, senza dire una parola e senza guardare storto nessuno, e gli altri ridendo della grossa, li obbligavano a schiaffeggiarsi da soli, a gridare slogan ingiuriosi contro sé stessi e, quando li avevano esautriti, a passare agli insulti contro i propri antenati... Per Li Testapelata e Song Gang fu l'estate più indimenticabile della loro infanzia, anche se non sapevano che era arrivata la Grande Rivolznione proletaria culturale, né che fosse cambiato il mondo, sapevano solo che Liuzhen era tutti i giorni in fermento, come fosse sempre festa." (cap. 9, pagg. 82-83).



LA STRUTTURA DI BROTHERS
All'apertura, s'introduce subito la figura di Li Testapelata da adulto, dopo aver già vissuto tutto ciò che è narrato nei due volumi italiani. Chi racconta le sue vicissitudini, è una 'voce' onnisciente, che interviene a spiegare i particolari delle varie situazioni e i pensieri dei protagonisti, rendendo il lettore partecipe delle riflessioni più profonde dei personaggi e dei fatti accaduti in contemporanea ad altri, come una sorta di ubiquità.

Lo stile e la scrittura sono scorrevoli e discorsivi, anche se il linguaggio è spesso farcito di volgarità e parolacce, ma questo è anche dovuto alla necessità di rendere più verace la narrazione, per colorirla e dipingerla nel modo più possibilmente credibile.

Io ho già letto e recensito altri libri di Yu Hua e non ho sempre trovato un linguaggio così spinto, ma ogni volta adattato alla situazione raccontata. Non a caso questo medico-scrittore è stato considerato l'autore contemporaneo più controverso della Cina odierna. Infatti, se molti dei suoi libri sono riusciti a resistere alla censura, non lo è stato per il film tratto dal suo libro più conosciuto, VIVERE!, da cui il regista Yang Zimou, ne trasse un capolavoro ancora poco apprezzato, la cui sceneggiatura fu proprio opera del romanziere di BROTHERS, tuttora impossibile da visionare in Cina.

VIVERE!, inoltre, ricevette anche il prestigioso premio letterario Grinzane-Cavour, come miglior libro straniero del 2004.


BROTHERS però, per la sua vasta e poderosa mole, per l'ampio respiro vissuto, e per l'abilità dimostrata, dall'autore, nel descrivere scene, situazioni e personaggi, oltre che pensieri e stati d'animo, resta, attualmente, un esempio insuperato nell'opera prodotta fino ad ora da Yu Hua. Per questo lo consiglio caldamente, anche perché non l'ho trovato affatto pesante, nonostante la drammaticità di certe scene. E poi, leggere libri di autori ben lontani dal comune immaginario collettivo (come possono essere i romanzi statunitensi o la narrativa poliziesca e legale italiana), apre orizzonti mentali inaspettati, oltre ad abbattere insussistenti pregiudizi e inutili stereotipi su Paesi, a noi occidentali, ancora del tutto sconosciuti.



SCHEDA DEL LIBRO
"Brothers" di Yu Hua
Feltrinelli, Milano 2008
pagine leggibili 248
Titolo originale "Xiongdi"
Traduzione di Silvia Pozzi
Prezzo Euro 16.



sabato 13 ottobre 2012

Il fenomeno editoriale del 2011: Il Linguaggio Segreto dei Fiori (Vanessa Diffenbaugh)


Seppi dell'esistenza di questo libro, grazie alla rivista letteraria Il Libraio, del gruppo editoriale Mauri-Spagnol. Era maggio 2011.
In quel numero venne perfino pubblicato un estratto, al centro della rivista, accanto a cui vi era la recensione che presentava questo clamoroso caso editoriale.
Letto l'estratto sull'inserto, mi ripromisi di procurarmi il volume, pur non essendomi entusiasmata in modo particolare. Così, quando mi capitò l'occasione, nel luglio 2011, volai a comprarlo più per curiosità che per genuino interesse.
La particolarità di questo libro era, inoltre, in armonia con il titolo e l'argomento trattato: la scelta di un fiore preciso, tra quattro diversi, riportati in copertina. La foto, cioè, era sì la stessa per tutti, il volto, in primo piano, di una ragazza dai capelli scuri, che regge un'istantanea, ma è il soggetto dell'istantanea che cambia ben quattro volte nelle copie delle copertine immesse in commercio:

la rosa, sinonimo di grazia ed eleganza,

la buganvillea, sinonimo di passione,

la gerbera, sinonimo di allegria,

la camomilla, sinonimo di forza nelle difficoltà.

A seconda dei gusti del cliente che l'acquistava, ogni volume de IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI riportava un fiore diverso, che il lettore, che sceglieva in base al proprio sentire.
Io ho scelto la rosa, perché è da sempre il fiore con cui mi sento in sintonia, anche perché non conoscevo, al momento dell'acquisto, il significato dei fiori, altrimenti mi sarebbe andato benissimo, oltre alla rosa, anche la camomilla.



DI COSA PARLA “IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI”

È la storia di Victoria, una diciottenne senza radici, figlia di chissà chi, abbandonata nella culla, la quale, durante l'infanzia, viene portata di famiglia in famiglia adottante, senza mai restare per sempre: tutti si lamentano di lei, che non ne fa una giusta; che è troppo aggressiva e litigiosa; ma, soprattutto, che è proprio una selvaggia, un'indomabile creatura che non si piega a nessuna forma di affetto... fino a che non incontra Elizabeth, la donna che la capirà all'istante, perché è come lei: selvaggia, indomabile, disadattata e restia ad ogni forma di affetto... tranne che per i fiori.

A contatto con Elizabeth, Victoria passerà gli unici pochi mesi sereni della sua infanzia. Dopo di che, per gelosia nei confronti della sorella maggiore della madre adottiva, la combinerà grossa e sarà portata via, ancora una volta, da Meredith, l'assistente sociale.
Ed è sempre grazie ad Elizabeth che Victoria apprenderà l'arte e il gusto dei fiori, il loro linguaggio segreto, che la condurrà, anni dopo, all'appuntamento col destino.



QUALCHE PARTICOLARE

Senza rivelare oltre le vicende del romanzo, è giusto inserire almeno qualche particolare della vita fuori dell'orfanotrofio dell'asociale protagonista, per far intender meglio il personaggio.

Dopo aver deluso, ancora una volta, Meredith, non avendo più diritto ad alcun asilo, appena maggiorenne, Victoria incomincia a condurre una vita da barbona: dorme nei giardini pubblici di Potrero Hill, a San Francisco, dove coltiva, in segreto, il suo giardino personale, con diversi tipi di fiori, i cui significati sono per lei l'unico mezzo di comunicazione emotiva.
La sua dura vita, il suo senso di fallimento – a cui però non si è mai davvero rassegnata -, ma anche la lotta per la sopravvivenza, la spingono a cercare un escamotage qualunque, pur di provare a sé stessa e agli altri (anche se non sa chi siano), che non è davvero ciò che appare.
L'occasione si presenta sotto forma di aiuto part time di una fiorista russa, Renata, molto rinomata nella zona, che le dà lavoro nei fine settimana. E lei, Victoria, pur di essere vicino ai suoi amati fiori, fa di tutto per non lasciarsi sfuggire l'occasione.
Entrata nella fiducia della sua datrice di lavoro, si trasferisce in una stanzetta in soffitto, dalle pareti e la moquette tutte blu, ma senza alcuna finestra, alla quale, non per questo, Victoria si affezionerà morbosamente. L'unica fonte di luce è lì una semplice lampadina elettrica.
È la prima volta che Victoria ha una casa, una sua vita, una sua abitazione, la quale, per quanto angusta sia, è orgogliosa di mantenere pagando l'affitto, in condivisione con la cantante Natalya, sorella minore di Renata.


A San Franciso, insomma, Victoria, col tempo, è diventata una vera celebrità, in campo di ornamenti e addobbi di fiori e piante, organizzazione di matrimoni e feste, grazie al suo fiuto per il fiore giusto per ogni occasione: la sua conoscenza del linguaggio segreto dei fiori la fa preferire da tutti. Il suo acume, la sua scelta sempre azzeccata e la sua creatività la porteranno in auge a tal punto che, finirà per mettersi in proprio...
Sarà, a questo punto, che il passato ritornerà pesantemente a rifarsi vivo, sotto forma di un'antica conoscenza maschile... l'unica in grado di forzare la sua resistentissima corazza d'acciaio, perché a lui, a questo ragazzo che lei conosce già, è legato un senso di colpa di cui non si è mai potuta liberare.
A questo punto, gli eventi precipitano, ma non in senso del tutto negativo. Tutt'altro! La vicenda subirà una svolta inaspettata che...

Mi fermo qui, perché so che molti non vogliono conoscere il contenuto, tanto meno il finale di un romanzo. E io, infatti, non ho svelato quasi niente di ciò che è narrato ne IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI, preferendo restare sul molto generico, proprio per non guastare la sorpresa a chi la ama.

Personalmente, non mi lascio condizionare dalla conoscenza della trama di un libro, già appresa prima della lettura. Anzi, sapere certi particolari, m'invoglia maggiormente a leggerlo, perché pregusto già l'intimità che si instaurerà tra me ed esso, quasi fosse una sorta di conoscenza tra esseri viventi.
Ad ogni modo, siamo gli uni diversi dagli altri, per cui rispetto chi non vuole saperne di più sulla trama di un libro e mi fermo qui nel narrare.


CHE COSA PENSO DE “IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI”
L'editoriale de Il Libraio di giugno 2011, di cui sopra, ne parlava in termini assolutamente entusiastici. Addirittura, lo stesso editore, Stefano Mauri, racconta che uno degli editor, a causa di un imprevisto occorso in viaggio, per non sprecar tempo prezioso, di notte, non avendo sonno (si era nell'aprile 2010), si accinse a leggere << un manoscritto inedito (IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI), appena scaricato sul pc, mandato dallo scout di New York. Pagina dopo pagina il romanzo l'assorbe. Alle 6, ora italiana, sveglia una collega per avere il conforto di una seconda lettura (…) Alle 10 mi richiamano perché vorrebbero acquistare il libro.
E sia. Il giorno dopo viene comprato da altri 30 editori nel mondo (…) >> (Il Libraio, Editoriale di giugno 2011).

 
Che entusiasmo!



PERMETTETE CHE ORA DICA LA MIA?

Ho letto questo libro nella primavera inoltrata del 2012, finalmente libera dagli studi.
L'ho letto la sera, prima di andare a dormire, poiché non mi sembrava impegnativo al punto da riservargli una lettura diurna, più attenta e approfondita.
Questo fa capire che IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI è un romanzo che si legge in breve tempo, che non impegna in alcun modo e che, secondo me, non è quel gran capolavoro che gli editori, col loro potente battage pubblicitario, volevano dare a bere al pubblico.

Non lo considero un libro speciale, com'è stato descritto proprio da Mauri nell'editoriale di cui sopra, né una vicenda dai contorni accattivanti, o dalla profondità tale, al punto da far capitolare e leggerlo nell'arco di una sola notte.
Per me non è stato così. Non l'ho trovato un libro potente e coinvolgente, come certuni letti anche di recente, hanno saputo fare. Mi è sembrata piuttosto una vicenda al limite dell'assurdo.

Il personaggio di Victoria, infatti, è poco delineato, non molto approfondito, piuttosto superficiale in alcuni punti.

Ho letto un altro libro, un romanzo più breve, di un'altra giovane autrice, una francese, pochi anni fa, sulla stessa scia di questo che sto recensendo, e, pur non essendo un papiro, i personaggi delle due protagoniste – anch'esse due disadattate sociali - sono stati delineati in maniera davvero ben calibrata e basata, lo stretto necessario, su una vicenda, che, seppur breve, è chiarissima e movimentata in modo tale, da non permettere al lettore di annoiarsi.
 


Ne IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI, soprattutto nella seconda parte, si scade facilmente in un'impercettibile ripetitiva noia, quasi claustrofobica e deprimente, come induce la sensazione che trasmette la stanzetta cieca di Victoria.

C'è poco di emozionante e coinvolgente. Perfino nell'incontro con Grant, il ragazzo della protagonista, quando il cuore, i sensi e la mente dovrebbero bruciare di passione, tanto più perché corrisposta pienamente e per la comune conoscenza della rara arte del linguaggio segreto dei fiori.
No, non è un libro potente e coinvolgente. Di emotivo qui c'è ben poco, per questo, sarò pure la solita voce fuori dal coro, ma non me la sento di esprimere un giudizio del tutto positivo su un libro che, in certi momenti, è al limite del banale.
Consigliare di leggerlo, questo sì, anche sulla spiaggia, poiché non impegna, ma dire che sia il fenomeno editoriale dell'anno 2011 ce ne vuole!

CENNI BIOGRAFICI SULL'AUTRICE
Vanessa Fleming in Diffenbaugh, ha tratto la storia e i personaggi del suo primo romanzo ispirandosi a reali vicende vissute personalmente, in quanto madre affidataria di teen-agers, che collabora attivamente con associazioni che aiutano ragazzi a rischio e bambini affidati ai servizi sociali.
Ha studiato scrittura creativa alla Stanford e tenuto corsi di arte e scrittura di accoglienza ai bambini delle comunità con cui collabora.
Vive con il marito, P. K. Diffenbaugh, a Cambridge, nel Massachusetts.
La coppia ha 2 figli naturali e un terzo adottato a 14 anni.
Stando a quanto dichiara, ha già iniziato la stesura della sua seconda opera narrativa.



LA STRUTTURA DEL LIBRO

In tutto le pagine del volume sono 362, ma solo le prime 333 sono occupate dal romanzo. Il resto si divide nel seguente modo: da pag. 337 inizia il “Dizionario di Victoria”, una sorta di promemoria del significato di ciascun fiore; quindi, a pag. 347 si legge la Nota dell'autrice, in cui spiega dove ha reperito le fonti per attribuire il giusto significato a ogni fiore; e, a pag. 349, si leggono i ringraziamenti a chi le è stato vicino, le ha prestato aiuto, nei momenti di difficoltà.
Quello che però è il pezzo forte, dopo il romanzo, è l'intervista rilasciata agli editori, per dar modo, al pubblico di mezzo mondo, di farsi conoscere e far capire chi è e cosa fa, oltre a scrivere.

A pag. 361, infine, troviamo l'indice.

IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI, Vanessa Diffenbaugh
Traduzione di Alba Mantovani
Edizioni Garzanti, Milano 2011
libro rilegato di pagine 362.


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Non mi fido, come la lavanda.
Mi difendo, come il rododendro.
Sono sola, come la rosa bianca,
e ho paura.
E quando ho paura,
la mia voce sono i fiori.

venerdì 18 maggio 2012

I misteri svelati

Con la recensione su questo libro voglio dare l'annuncio, agli amici di bloggers, quelli che, in particolare, hanno vissuto con me il travaglio di questi anni, che, il 2 aprile 2012 ho finalmente posto fine al mio percorso universitario, concedendomi la tanto sospirata (e agognata) seconda laurea, quella che mi ha letteralmente rivoluzionato la vita, sotto tutti i punti di vista.
Avrei voluto darne l'annuncio già in aprile, ma per (incresciosi) motivi, a me indipendenti, non ho mai avuto il tempo per scriverla.

 
L'ARGOMENTO della tesi – in Letteratura Italiana del '900 - era IL PAESAGGIO DI TRIESTE NELLA POESIA DI UMBERTO SABA.

Perché ho voluto svolgerlo proprio su questo autore?

Alcuni di voi lo sanno già. Ad ogni modo, lo spiego ai nuovi lettori.

Sin da quando frequentavo il corso di Letteratura I, a Milano, per la prima laurea, studiando Saba e leggendo le sue poesie, m'innamorai di Trieste senza averla mai vista; e perché la descrizione che Saba fa di essa, nei suoi versi, è davvero inimitabile! Le sue descrizioni in poesie come Trieste, Città Vecchia, Tre Vie, Il Molo, ecc., (che ho analizzato anche in un apposito articolo) sono in grado di spiegare, in maniera più che esaustiva, che aria tirava nella città ai suoi tempi, e com'era strutturata la città vecchia, cioè << la parte più incontestabilmente italiana >> (U. Saba, “Come di un vecchio che sogna”, 1957, I Meridiani, Mondadori). E poi, la poesia di Saba mi piace perché è di una limpidezza e cristallinità uniche, oltre che tanto simili a quella dell'Adriatico che bagna quella costa, la più orientale d'Italia.

Avete mai letto una qualunque poesia di Saba? No? Che vi siete persi! Affrettatevi a farlo, appena finirete di leggere questa recensione. In internet è facile trovare i testi delle sue più famose composizioni, che vi delizieranno senza ombra di dubbio!
Procediamo quindi con ordine, toccando i punti salienti della biografia sabiana, che è proprio l'argomento trattato da Stelio Mattioni, triestino come Saba, su cui aggiungerò una nota biografica in calce a questo scritto.

 
STORIA DI UMBERTO SABA (Stelio Mattioni)
Questo ormai introvabile libro, non è altro che la biografia documentatissima di un grande, e ancora incompreso, poeta: l'incasellabile Umberto Saba. Il particolare però è che chi l'ha scritta è un triestino doc come Saba, che si è impegnato fin troppo per cercare le notizie inedite riportate, e verificare quelle già in circolazione. A lui si devono, infatti, certe smentite su notizie date ormai per scontate.


La copia in mio possesso la trovai a Trieste, in una libreria-rigatteria posta all'entrata del ghetto ebraico, gestita da una singolare e simpatica famiglia, il cui capo, poco più in là, a sua volta, gestiva una fornitissima e appetitosa bancarella di libri usati (librerie = luogo di perdizione, per me).


A Trieste finora ci sono andata solo due volte: la prima come turista (2001), seppur sempre incuriosita da Saba; la seconda (2007) proprio sulle sue tracce.


Nel 2007, inoltre, ricorreva l'anniversario di morte del poeta (1957), di cui io non sapevo niente, per cui la città, all'occorrenza, aveva allestito tutta una serie di manifestazioni riguardanti la commemorazione dei letterati triestini, come il mio amato Saba e il noto romanziere Italo Svevo.


Innamorata della sua poesia, e ancor lontana dal poter concordare l'argomento della tesi, sognavo di realizzare quest'ultimo con il progetto di tirocinio, in modo da concentrare entrambi i lavori su un unico appassionante tema: la poesia di Saba e il paesaggio di Trieste. E così fu.


Dopo aver sostenuto l'esame, col docente titolare di cattedra, nell'anno accademico 2008/09, concordai il progetto con il responsabile dei supervisori per i tirocinanti, un simpatico insegnante, che si appassionò, lui per primo, al mio progetto del tutto sperimentale, proceduto per tentativi!


Sarà stato il destino, sarà stata qualunque altra cosa, ma, dopo le prime titubanze, dovute all'insolita richiesta, compreso con la collega-tutor, ho visto e goduto nel realizzare tutto il percorso, non sempre facile, di tesi e tirocinio sul medesimo argomento! Sentivo, infatti, dentro di me, che Saba, la sua sublime poesia e la sua splendida città, erano in qualche modo a me legati; dentro di me è sempre stata viva una consapevolezza speciale, la quale mi ha fatto capire che il mio sogno si sarebbe realizzato, perché doveva andare per forza così. Era destino che scrivessi sul mio Saba! Ogni volta che mi proponevo un obiettivo che lo riguardasse, ho notato, che si è sempre realizzato senza ostacoli particolarmente insormontabili. Da qui la mia gioia, la mia passione per la sua delicata poesia e per quella città, insieme a tutta la sua ridente zona, mi sono state di aiuto e di conforto nel farmi capire che non sbagliavo il mio sentire: ero sulla strada giusta, quella destinata, quella che qualcuno aveva già progettato per il mio percorso.


Inoltre, Stelio Mattioni ha realizzato un'opera importante, non tanto per l'argomento, su cui era già stato detto, e fin troppo, quanto sulle inedite notizie reperite dagli archivi e dalle altre piste battute.


Le ricerche sulla vita reale di Saba, narra l'autore nella premessa, ebbero inizio sin dal 1959, cioè ad appena due anni dalla morte del poeta ma, pur proseguendo infaticabile, Mattioni trovò vari ostacoli, come l'assurda superstizione che interessarsi a Saba portasse sfortuna!


Il libro, secondo le sue intenzioni, doveva essere pubblicato subito dopo la conclusione delle indagini, cioè nella prima metà degli anni '60, ma per le continue vessazioni subite, comprese quelle della figlia, Linuccia Saba, indussero l'autore a rimandarne la pubblicazione addirittura al 1986.

Una volta lanciata però, l'accuratissima biografia di Saba fu apprezzatissima e di grande aiuto alla critica per far luce su certe vicende mai chiarite sulla vita del poeta


Vediamo perciò, a mo' di esempio, i punti più salienti di questo libro-documento, giusto per capire perché questa ricerca è risultata fondamentale e ha portato scompiglio nel mondo letterario.




UMBERTO SABA


PUNTO A) - Senza entrare nel merito della biografia del poeta – che potrete apprendere (a chi non è nota) leggendo l'apposita recensione scritta su di lui (da cui ho prelevato qualche riga), o, se preferite, cercandola in internet o nei libri di letteratura che avete in casa -, si sa già che Umberto Saba nacque a Trieste il 9 marzo 1883. La madre, Felicita Rachele Coen, ebrea, appartenente a una famiglia di piccoli commercianti, sposò Ugo Edoardo Poli, un vedovo di 40 anni, già padre di una bambina, che sopravviveva vendendo mobili, discendente, per parte di madre, da un'antica e nobile famiglia veneziana, gli Arrivabene, grazie a un matrimonio combinato. Per 4.000 fiorini lo << sciagurato >> - come lo appellerà, in seguito, il poeta – si fece addirittura circoncidere e cambiò cognome, e, prima ancora che nascesse il figlio, abbandonò la moglie per tornare alla vita gaia e spensierata di un tempo, finendo addirittura in prigione per lesa maestà, proprio nel periodo coincidente con la nascita del figlio. Grazie a quel << padre assassino >>, il poeta ottenne però la cittadinanza italiana, pur essendo nato nella Trieste dell'impero austro-ungarico.


A questo punto interviene il lavoro serio e accurato svolto da Stelio Mattioni, a proposito del padre di Saba, di cui si è tanto detto e creduto.


Dai documenti, che egli recuperò, riguardanti quest'uomo, risultano numerose discrepanze con ciò che è comunemente noto, come quella che lo voleva vedovo quarantenne, al momento del matrimonio con la Coen. All'anagrafe, Ugo Edoardo Poli risulta sì nato a Trieste, ma il 9-2-1853! Come poteva avere 40 anni se il 2-7-1882, giorno del matrimonio con la trentasettenne Felicita Rachele Coen, era invece ventinovenne?


Non solo!


Altre incongruenze sono circondate dal mistero più fitto, le quali riabilitano questo padre assassino. Si dice, di fatti, che Poli venne arrestato per lesa maestà, come dimostrano i documenti conservati all'Archivio di Stato e le Indagini e Congetture svolte dal giornalista Odoardo Spoglianti, pubblicate su “Metodi e Ricerche”, una rivista di studi regionali di Trieste, nel trimestre luglio-settembre 1987. Fin qua tutto noto.


Ma, grazie alle ricerche di Mattioni e Spoglianti, furono trovati altri due documenti, che testimoniano la perquisizione dell'appartamento di Poli, in via Pondarès, - da parte della polizia austriaca -, dalla quale risultarono la scoperta dei ritratti dei reali d'Italia e di Guglielmo Oberdan, l'irredentista fatto giustiziare dagli Austriaci, oltre a una seconda notifica riguardante la stessa perquisizione.


Da quanto risulta all'Archivio di Stato, Ugo Poli venne arrestato e poi rilasciato senza processo, ma con l'obbligo tassativo di andarsene da Trieste. Pertanto, sembra che l'uomo non abbandonò la famiglia di propria iniziativa, fermo restando << che non diede più notizia di sé, fino a una ventina d'anni dopo, quando, sbandato e ormai in età >> (pag. 7), rintracciò il figlio per cercare aiuto da lui.


PUNTO B) - Tornando alla biografia di Saba, si sa che dopo l'abbandono del marito, la madre, rimasta sola e priva di mezzi, affidò il bambino a una balia per tre anni, una contadina slovena di nome Peppa Sabaz, la quale, avendo perso il proprio figlio, e disponendo di latte per nutrire il piccolo affidatole, si affezionò a questi teneramente. A lei, infatti, << madre di gioia >>, il futuro poeta resterà sempre grato. Tanto è vero che la ricorderà come custode di un paradiso perduto nei versi di Cuor Morituro e del Sonetto del Paradiso.


Senonché Umberto, più tardi, proprio per riconoscenza nei suoi confronti e rifiutando a priori la propria paternità (ma anche maternità), cambierà il cognome di Poli in Saba, rendendo omaggio a entrambe le madri: la nutrice, che si chiamava Sabaz, e la naturale ebrea, perché in ebraico la parola “saba” vuol dire “pane”.


Questo per quanto riguarda ciò che è comunemente noto su questa donna. Però, grazie ancora alle ricerche di Mattioni, è venuta a galla un'altra versione sulla balia.


Fu sì la ventinovenne di Duino a prendersi cura del piccolo Umberto, ma i risultati dell'indagine indicano che la slovena Gioseffa, detta Peppa, di cognome non facesse Sabaz, ma Gabrovich, che non era sposata, ma che avesse comunque del latte da dare al neonato, a causa di un figlio natole morto.


La permanenza in casa di Peppa, per il figlio della Coen, si prolungò per tre anni, fino al 1886, fin quando cioè lei si trasferì in città per aprirsi una tabaccheria in piazza del fieno, nel rione Rozzal. Fu proprio in questa tabaccheria che la Gabrovich conobbe Ermenegildo Schobar, un macellaio col quale, nel 1887, si sposò << andando ad abitare in via del Monte 15, molto vicino a dove abitava il piccolo Umberto, a cui era molto affezionata >> (pagg. 13-14).


Mattioni ci fa quindi sapere che non è alle due madri che Saba deve il nome d'arte, bensì ad altro. Leggiamo.


PUNTO C) - Anche la scelta dello pseudonimo “Saba”, molti anni dopo, secondo Mattioni, fu un tentativo, da parte di Umberto Poli, di dare un taglio netto ai legami con padre e madre.


È del 1901, infatti, la prima apparizione, sulla pubblicazione Poesie - primo volume in versi del poeta -, dello pseudonimo Umberto Saba, anziché Umberto da Montereale, come si era firmato fino a quel momento.


Mattioni sostiene che, dalle sue indagini, non risultano spiegazioni date dal poeta circa l'origine della sua scelta. Piuttosto, l'idea che lo derivasse dall'ebraico “pane”, gli sembra un'invenzione della figlia Linuccia, press-agent del padre, e tanto meno da quello della balia Sabaz, che, in realtà, era Gabrovich.


<< La verità è semplice >> - scrive Mattioni a pag. 58 -, << e ci è stata raccontata da Giorgio Fano (cugino della moglie di Saba e colui che li presentò n.d.r.). Saba era lo pseudonimo adottato da G. Fano per firmare i racconti per ragazzi, che si dilettava a scrivere. Saba dal regno di Saba, dalla regina andata a Gerusalemme a rendere omaggio alla saggezza di Salomone. (…) A Umberto da Montereale quello pseudonimo piacque da morire, e tanto fece che Giorgio Fano glielo cedette. >> (pag. 58).




Questi sono solo alcuni dei punti che Mattioni ha ricavato dalle sue indagini e riportato nel volume, che ne contiene degli altri, i quali hanno, a dir poco, sconvolto il mondo letterario e la pubblica opinione, i quali davano ormai per scontate certe vicende. Purtroppo, la vita non è andata così e le rigorose ricerche di Mattioni l'hanno dimostrato.


L'autore ha qui scandagliato, fin nel profondo, l'esistenza del poeta suo concittadino. Perfino la storia extraconiugale, che la moglie Lina avrebbe voluto avere con Guido Timmel, un modesto pittore, in seguito alla constatazione dell'eterno malessere psicologico di quel marito musone, ci viene raccontata in modo obiettivo e distaccato, cosa che non ha certo fatto la maggior parte della critica, la quale ha sempre sorvolato sull'episodio, camuffandolo e limitandolo a una “crisi di famiglia” e non di coppia, se non addirittura sorvolandoci su! Quando, invece, questa distrazione di Lina fu causa di profondo dispiacere, nel marito, e origine di alcune tra le più straordinarie composizioni poetiche di Saba.


Il pregio dello stile di Stelio Mattioni sta proprio nel rimanere distaccato dalle vicende raccontate, in quanto è, il più delle volte, secco e deciso, fino al punto da sembrare scocciato dal suo stesso raccontare.


Ma dobbiamo a lui, a questo libretto di 185 pagine, se abbiamo conosciuto davvero i fatti, se si è delineata (e scavata), ancor più chiaramente, la taciturna e scontrosa gioventù sabiana. D'altronde, lo scrittore stesso si autodescrive, nella premessa, come un semplice narratore dei fatti e non come uno studioso. Mattioni, in effetti, non ha voluto intenzionalmente fare critica, né sulla poesia di Saba, né sulla sua vita. Lungo tutta la stesura del libro resta, costantemente, un'imparziale voce narrante di quei fatti, che egli stesso s'impegnò a scoprire e render noti al grande pubblico, solo oltre un ventennio più tardi.


L'OPERA DI STELIO MATTIONI, come già detto, è attualmente introvabile. Io stessa, quando la scoprii, mi resi conto della sfacciata fortuna che ebbi nel trovarlo, anche se, a dire il vero, fu mio marito a scovare fisicamente il volume. Perciò, chi fosse appassionato alla poesia di Saba o semplicemente curioso di leggerla, consiglio di rivolgersi ad una biblioteca civica, dov'è sicuramente custodita qualche copia.


Durante la discussione della mia seconda tesi, ho tenuto molto a disquisire sui punti più su riportati, essendo la bomba a orologeria del libro di Mattioni, né l'ho trovato pesante e noioso, poiché scritto con un linguaggio colloquiale e distaccato.


Sono pochi i punti in cui l'autore dimostra una narrazione partecipata, come quello, ad es., sulla presunta omosessualità di Saba, verso cui dissente apertamente, dopo l'analisi di svariati aspetti ed episodi sulla vita del poeta.


A chi volesse, quindi, approfondire la conoscenza del grande Umberto Saba, e della sua personalissima e bellissima poesia della semplicità e del quotidiano, consiglio vivamente la consultazione quest'opera.




CENNI BIOGRAFICI SU STELIO MATTIONI

Nato a Trieste nel 1921, ha sempre vissuto nella sua città, dov'è morto nel 1997.


È stato uno degli scrittori triestini più noti degli ultimi decenni del '900. Infatti, il Comune di Trieste gli ha perfino intitolato una biblioteca civica.


Da giovane, e fino al termine dell'attività lavorativa, Mattioni ha continuato a lavorare nella raffineria di petrolio “L'Aquila”, dapprima con mansioni di semplice impiegato, quindi come dirigente, pur con uno stacco, durante la seconda guerra mondiale, che lo portò al fronte.

Del 1956 è la pubblicazione della sua prima opera, una raccolta di poesie intitolata “La città perduta”, che lo condurrà a frequentare l'effervescente mondo letterario triestino caratterizzato, allora, dalla fertile presenza di autori di spicco come Saba, Giotti, Stuparich e Quarantotti Gambini.


Non essendo molto convinto del suo talento poetico, nonostante l'apprezzamento di diversi critici, si convertì alla prosa narrativa, arrivando a vincere perfino prestigiosi premi come il Campiello.




STORIA DI UMBERTO SABA è forse l'opera più famosa di Stelio Mattioni, in quanto apprezzatissima dalla critica, che non era riuscita mai a mettere insieme diversi dei misteriosi tasselli sulla vita privata del grande e tormentato poeta. Per questo lo scrittore fu incaricato, dal Comune di Trieste, di organizzare molti degli eventi celebrativi sui grandi autori triestini (e non) come Svevo e lo stesso Saba.


A chi fosse interessato alla vita e all'opera di quest'altro bravo letterato triestino, consiglio la breve ma esauriente biografia riportata su Wikipedia.


Vi saluto con i significativi versi di Saba scritti durante le persecuzioni razziali.


Avevo una città bella tra i monti


rocciosi e il mare luminoso. Mia


perché vi nacqui, più che d'altri mia


che la scoprivo fanciullo, ed adulto


per sempre a Italia la sposai col canto.


(U. Saba, “Avevo”, in “1944”).
 
 
 
Si ringraziano i docenti dell'Università Cattolica, che mi hanno concordato l'argomento di tesi e seguito durante la stesura:
 
Proff. Ermanno Paccagnini, Paola Napolitano, Marta Mai.