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lunedì 26 maggio 2008

Addio, mia concubina (libro e film)

Pochi sanno che questo bellissimo FILM è tratto da un ROMANZO del 1985, scritto da Lilian Lee, edito in Italia solo nel 1993, probabilmente in contemporanea all'uscita del film, dal titolo originale, in inglese, Farewell to my concubine, in italiano tradotto come Addio, mia concubina.
La prima volta che mi capitò di vedere il FILM fu nel maggio 2004 e restai talmente affascinata che, apprendendo dai titoli che era tratto da un libro, mi affrettai subito a comperarlo.
In libreria, come prevedevasi, non lo trovai, neanche come fondo di magazzino: era troppo vecchio essendo stato p
ubblicato 11 anni prima. Così spulciando in internet, tramite una bella e fornitissima libreria di Roma di nuovo e usato, la libreria Tara, trovai ciò che cercavo e in men che non si dica ricevetti il libro (ed. Frassinelli) in edizione originale, usata ma in ottimo stato. Si vede qui al lato, nonostante il flash abbagliante.
Naturalmente, come per Vivere!, prima di dare un giudizio globale ho aspettato di leggere il libro e, una volta fatto (e riguardato il film), mi sono finalmente decisa a scrivere la recensione riguardante entrambe le rappresentazioni di Addio, mia concubi
na.
Ma partiamo dal FILM.

Addio, mia concubina ha partecipato nel 1993 al Festival del cinema di Cannes vincendo, ex aequo, la Palma d'oro con un altro film della regista inglese Jane Campion, Lezioni di piano.
Se Lezioni di piano ha avuto una sfolgorante distribuzione, grazie al lancio internazionale della Croisette, il destino distributivo di Addio, mia concubina è stato invece lento e difficoltoso, quasi non meritass
e il premio ricevuto, ed è uscito in sordina, sul mercato italiano, diffondendosi solo grazie alla "forza della propria preziosità stilistica e dall'ambiguità di una tematica sofferta, nella complessità delle dinamiche private e politiche della Cina del XX secolo". (Ezio Leoni)

Il FILM abbraccia mezzo secolo di storia cinese, esattamente dal 1925 al 1977. E', teoricamente, la rievocazione della grandezza e della miseria dell'Opera di Pechino. Ma questa grande forma di teatro, a noi occidentali quasi del tutto sconosciuta, fa solo da sfondo alla vicenda dei due protagonisti e alla loro storia d'amore e d'amicizia.
Ma procediamo con ordine.

L'INCIPIT del FILM è quello di un' allegra rappresentazione, in piazza, dei ragazzi della scuola dell'Opera di Pechino, gli aspiranti attori "adottati" dal maestro Guan.

Siamo nel 1925.
Una donna e un bambino si aggirano tra la folla, ma visibilmente senza a
vere l'intenzione di seguire lo spettacolo.
Più tardi la stessa donna presenterà al maestro Guan il bambino, suo figlio Douzi, di 9 anni. Lo vuole affidare a lui perchè ne faccia un attore e abbia un futuro assicurato e un post
o dove vivere. Lei è una prostituta e, pur essendo in grado di mantenerlo, non può tenerlo perchè è un maschio. Se fosse stato una femmina il futuro era assicurato.
Quando maestro Guan squadra il bambino, ciò che vede gli piace. Douzi è, infatti, un bambino snello dai lineamenti molto fini e dall'incarnato delicato. Ottimo per le parti da dan (femminili).
Ma arrivato all'osservazione delle mani, il piccolo si rifiuta di tirar fuori la mano destra e quando il maestro lo obbliga, rabbrividisce: il bambino ha sei dita. Così lo rifiuta e manda via lui e la madre.
La donna, disperata, non si dà subito per vinta, e afferrato il grosso coltello di un artigiano presente nei paraggi, non esita a tagliare l'ostacolo che si oppone al figlio di essere accettato in quella scuola: il sesto dito.
Ripres
entandolo a maestro Guan con la mano fasciata, la donna firma, o meglio, fa una croce sul contratto e cede suo figlio alla scuola dell'Opera di Pechino.

Per tradizione, fino agli anni 50-60 (precisamente con l'avvento del maoismo) questi istituti erano tutti maschili; le parti femminili venivano interpretate sempre da attori travestiti da donna.
L'esperienza nella scuola dell'Opera di Pechino è fatta di disciplina dura e di punizioni corporali umilianti. Pur non imparando a leggere e scrivere, gli aspiranti attori devono subire l'indottrinamento culturale sui rigorosi riti teatrali e sulla simbiosi dei ruoli che interpreteranno e in cui, man mano, identificheranno la propria personalità.
A Douzi, così delicato e dai lineamenti gentili, era più che scontato c
he venissero affidati ruoli femminili. A Shitou, l'altro protagonista, di tre anni maggiore di Douzi (ne aveva 12), già più robusto e sviluppato, sembrano congeniali i ruoli dei grandi personaggi maschili. E quale opera migliore di Addio, mia concubina poteva essere loro più congeniale?
E' necessario qui aprire una parentesi sull'opera in questione. Addio, mia concubina è una reale opera della drammaturgia classica cinese, uno dei testi più affascinanti e amati. In passato venivano tramandati più oralmente che scritti da un vero autore; finchè un grande attore come Mei Lanfang (1894-1961), il più noto interprete di ruoli dan (i personaggi femminili dell'Opera di Pechino), non ha riscritto il dramma a modo suo, attingendo direttamente dalla lunga esperienza personale, oltre che muovendosi lungo la debole linea di confine che dovrebbe, teoricamente, separare teatro e vita, nel perc
orso umano e artistico.
C'è, nel testo di Mei Lanfang, l'approccio biografi
co, forse quello che meglio si adatta alla contestualizzazione e all' avvicinamento della riscrittura del testo del dramma, impreziosita, perchè è una versione, questa, arricchita dall'esperienza personale di interprete dan.
E', forse, a Mei Lanfang che ha pensato Lilian Lee, quando ha scritto il suo romanzo, trasferendolo però sul personaggio di Douzi, più lirico e patetico.
Ma ritorniamo al FILM.
Eravamo rimasti all'infanzia, o meglio, ai primi anni di scuola teatrale di Douzi e Shitou.
Come in ogni grande ambiente, popolato da tante persone, come, in questo caso, la scuola di maestro Guan, di tanti ragazzi, l'ultimo arrivato fa le spese per tutti e viene un pò tenuto alla larga o preso di mira per piccoli dispettucci ecc. Accade proprio qu
esto al piccolo Douzi, quando si troverà di fronte a tutti quei ragazzini scatenati. Solo uno, un pò più grandicello, Shitou, lo stesso che aveva visto esibirsi in piazza quando era ancora in compagnia della mamma, prenderà le sue parti e lo difenderà dagli altri, prendendolo sotto la sua ala protettiva e guidandolo nelle cose a lui ancora sconosciute. E' con Shitou che stringerà un rapporto dal confine mai molto chiaro. Se sarà più fraterno o più amoroso non si capirà, né lo capirà mai lo stesso Douzi.
Il tempo passa e i due protagonisti, ormai ancorati ai loro personaggi dell'imperatore Xiao Yu e della sua fedele concubina Yu Ji, cambieranno anche nomi. Shitou diventerà Duang Xiaolou (Zhang Fengyi) e Douzi, Cheng Dieyi (Leslie Cheung).
La loro trionfale carriera va avanti anche con l'inasprirsi dell'invasione giapponese, fino a q
uando Xiaolou non sposerà la prostituta Juxian.

Dieyi prenderà male la notizia dell'intrusione della donna nel suo rapporto col collega. Juxian, invece, superato il primo impatto e resasi presto conto dell'ostilità dell'amico fraterno del marito, innalzerà anch'essa le difese.

Il FILM continua con diversi colpi di scena, che sono, in parte, affrontati nella delineazione delle figure dei protagonisti descritti qui di seguito.
Per non rovinare la sorpresa e il gusto di vedere e godere questo splendido film, basterà dire solo che i due protagonisti maschili, dopo essersi separati e tornati insiem
e più volte, saranno allontanati forzatamente e per sempre, durante la Rivouzione Culturale.
Molti anni dopo, riabilitati, verranno invitati dal governo, a fare una rappresentazione privata del loro cavallo di battaglia, Addio, mia conc
ubina.
Dieyi coglierà quell'occasione per realizzare il suo sublime sogno e più grande desiderio: morire come la concubina Yu Ji, sotto gli occhi del suo amato signore.

LA FIGURA DI DIEYI-DOUZI E DI SHITOU-XIAOLOU NEL LIBRO E NEL FILM.
Nel FILM come nel LIBRO, Douzi-Dieyi non nasce già con tendenze omosessuali. Tutt'altro. E' un'imposizione voluta dall'esterno che lo ha quasi convinto di esserlo, oltre alle
circostanze. Poichè sia da bambino che da uomo conserverà sempre una delicatezza quasi femminea, il maestro Guan, con occhio da esperto intenditore, lo destina, sin da piccolo, a ruoli femminili. E sarà dura, per il piccolo Douzi, la lotta per convincersi di essere una fanciulla invece che un fanciullo: per interpretare alla perfezione una parte bisognava, secondo gli insegnamenti più classici, entrare nel personaggio e/o identificarsi con esso. E se a Douzi era capitata la sorte di interpretare ruoli femminili, di conseguenza, doveva entrare nella parte della fanciulla. E' da lì che confonderà per sempre la netta linea di demarcazione tra maschile e femminile e vedrà Shitou-Xiaolou, che sin dal primo momento si è elevato a suo strenuo difensore contro gli scherzi crudeli degli altri compagni, come il suo idolo protettore, suo padre e sua madre, il proprio re e imperatore, il suo compagno fraterno e il suo partner.
Dieyi vivrà sempre nell'idea che anche nella vita viga la stessa realtà dell'opera teatrale; e si immedesimerà a tal punto in Yu Ji, la protagonista di Addio, mia concubina, che confonderà i limiti tra realtà e finzione e finirà davvero per credersi donna intrecciando anche rapporti omosessuali con uomini privi di scrupoli. Ma mai con Xiaolou. Dal canto suo Shitou-Xiaolou, se si comporterà come un paladino di giustizia col piccolo Douzi, è solo per solidarietà nei confronti del nuovo arrivato, e per carattere, essendo di indole più spavalda e coraggiosa, meno incline di Douzi-Dieyi, alla malinconia.
Il risultato è, infatti, il destino dei ruoli che ricoprirà a teatro: quelli di re, generale, imperatore. S
arà sempre comunque un grande condottiero e non vedrà mai in Douzi-Dieyi un possibile partner, anche durante il pieno fulgore della loro gioventù baciata dalla fortunata carriera.

Al contrario di Dieyi, Shitou-Xiaolou sarà un uomo in tutto e per tutto. Per lui non ci saranno confusioni di ruoli teatrali con la vita vera, né sessuali; ed essendo un giovane libero ed energico, riverserà parte delle sue energie sulle donne, in particolare su una che fa la prostituta alla Casa dei Fiori, famosa casa di tolleranza di Pechino. La fortunata Juxian è una tra le prostitute più ricercate, ed è un pò grazie alla sua avvenenza, un pò grazie alle sue arie seduttive, che riuscirà a far capitolare l'attore e a farsi sposare, sollevando le ire del fraterno compagno Dieyi, che vivrà questa novità come una fatale intrusione, che incrinerà, se non spezzerà il fragile equilibrio che si era stabilito tra lui e Xiaolou.

LA FIGURA DI JUXIAN
Nel FILM come nel LIBRO Dieyi, abbiamo detto, prenderà male la notizia del matrimonio di Xiaolou.
Nel FILM Juxian, di fronte all'ostilità di Dieyi si troverà, in principio, spiazzata ma poi, superato il primo impatto, innalzerà le difese e si comporterà di conseg
uenza.
Nel LIBRO, invece, Juxian sembra non rendersi subito conto di questo malcelato sentimento. Infatti, più volte tenterà con Dieyi approcci positivi e amichevoli, che lui rifiuterà sempre sprezzantemente, e Juxian, che nel ROMANZO risulta meno calc
olatrice che nel FILM, resterà sbigottita di fronte a tali risposte e non saprà spiegarsi, inizialmente, il perchè. Scoprirà solo più tardi la gelosia di Dieyi nei suoi confronti, volta a proteggere l'amico.

Nel FILM la figura di Juxian, interpretata magistralmente dalla bravissima Gong Li, l'attrice cinese più nota in occidente, è una figura più velenosa che nel libro, più aspra e risentita, rosa dal livore delle attenzioni che Xiaolou rivolge all'amico e non solo a lei, come vorrebbe. Risulta, pertanto, come una specie di arpia dall'aspetto angelico. Calcolatrice quanto basta da imporre, in modo sottile e pretenzioso, a Xiaolou di farsi sposare per riscattarsi da un destino da finire, altrimenti, tra le mura del bordello. E, più tardi, sempre nel FILM, quando svelerà la sua vera natura, coman
dando quasi a bacchetta il marito, imponendogli di mollare la recitazione per mettersi a fare il venditore di angurie, è una figura troppo meschina.
La J
uxian del LIBRO, invece, non imporrà mai al marito di lasciare di lasciare il teatro. Quando Xiaolou lo farà, sarà solo in seguito all'ennesima scenata di gelosia di Dieyi nei confronti della donna.
A questo punto
, nel LIBRO come nel FILM, sarà maestro Guan a far riunire i due attori nella mitica coppia di un tempo. Ma ci penserà l'invasione giapponese a dividerli ancora e sarà Dieyi che, godendo della protezione di un ricco e potente personaggio appartenente all'Opera di Pechino, maestro Yuan Siye (con cui intrattiene rapporti omosessuali, malgrado sé), libererà dalle mani degli invasori Xiaolou, arrestato - per essersi ribellato durante una rappresentazione-, tenendo un piccolo concerto solo per la corte dei militari giapponesi capeggiati dal loro generale, intenditore e amante dell'Opera di Pechino.
L'iniziativa di liberare Xiaolou dai giapponesi non era certo venuta in mente a Dieyi, che ormai considerava finita la carriera col compagn
o, bensì a Juxian, che sapendo della sua relazione con maestro Yuan, gli promette di lasciare libero Xiaolou, purchè lui intervenga a favore del marito. Cosa che non farà mai.

Tutto ciò concorda con il libro. Il seguito è il vizio dell'oppio di Diey
i; l'avvento del Kuomintang prima e di Mao dopo, oltre al tradimento che le guardie rosse della Rivoluzione Culturale imporranno ai tre, durante le autodenunce e le accuse assurde per scoprire dove s'insidiava il traditore attaccato al vecchio regime e quindi sovvertitore di quello attuale.
Questi processi sommari avvenuti in Cina a partire dal 1966, per volere della terza moglie di Mao Jian Qing, erano corredati di botte massacranti ad opera di ragazzini detti guardie rosse, i quali, per lo più, finivano per ammazzare gli imputati, che non avevano
la minima possibilità di difendersi.
E' durante uno di questi processi agli artisti del teatro, che avviene l'epilogo drammatico di tutta la vicenda.
Xiaolou, costretto a confessare a suon di bastonate, rivela che il suo compagno ha intrattenuto rapporti sodomiti con maestro Yuan Siye, già andato a morte. Al che Dieyi, per tutta risposta, risentito dalla rivelazione e da tutti gli anni in cui aveva dovuto sopportare la presenza di Juxian, sputa fuori la verità sulla rivale: era una prostituta della Casa dei Fiori.
Juxian, lì presente, ormai d'età, viene subito afferrata e sottoposta
allo stesso trattamento da altre guardie rosse.
Quando tutto finirà e Xiaolou tornerà a casa farà una macabra scoperta: il corpo di sua moglie penzola dal soffitto privo di vita.

Molti anni dopo nel FILM i due attori, riabilitati e convocati dal regime attuale, reciteranno insieme per l'ultima volta e Dieyi, sempre fedele alla trasposizione del teatro nella vita reale, come agisce la protagonista di Addio, mia concubina, Yu Ji, si taglia la gola con la spada del suo signore.
Il ROMANZO a questo punto si discosta dal film, ma possiamo anche capire il perchè. La morte finale ha qualcosa di lirico ed è sicuramente sembrata, alla stessa scrittrice, Lilian Lee - che ha steso la sceneggiatura del film in collaborazione con Lu Wei, l'ideale per terminare un film superbo come quello di Chen Kaige.

IL LIBRO
Ini
ziano qui delle discrepanze con il FILM.
L'autrice, dopo la drammatica denuncia della Rivoluzione Culturale, ha continuato a narrare le vicende dei due protagonisti.
Xiaolou, dopo la campagna di rieducazione al sud, è stato riabilitato e si è trasferito a Hong Kong dove vive in un appartamento in subaffitto con una misera pensione riconosciutagli da quel governo, ancora colonia inglese, quale rifugiato.
Dieyi dopo essere stato anch'egli in rieducazione, riabilitato, ha ripreso la via del teatro e alla mortedi Mao gli è stata affidata la direzione della gloriosa Opera di Pechino. E' ora maestro Cheng e dirige una compagnia di giovani e talentuosi attori.
Il loro ultimo incontro nel romanzo avverrà a causa di una tournée della compagnia per tutta la Cina, che toccherà anche Hong Kong nel 1982. Sarà a causa dei manifesti ripor
tanti il nome di Cheng Dieyi al teatro, che Xiaolou verrà a conoscenza della sua presenza a Hong Kong.
Fattosi coraggio e messi da parte gli antichi rancori, Xiaolou incontrerà l'amico, che troverà piuttosto triste e insoddisfatto.

Nessuno dei due recita più da tanto e, pur di ricordare ancora una volta i vecchi tempi, una sera, terminata la rappresentazione di Addio, mia concubina dalla attuale compagnia di Pechino, i due attori reciteranno per l'ultima volta il loro cavallo di battaglia, truccandosi e vestendosi come una volta.
Nel momento in cui la concubina si taglia la gola, Dieyi coglierà l'occasione e si porterà davvero la lama della spada alla gola ferendosi, ma non mortalmente, come invece avviene nel film. Alle incitazioni di Xiaolou, spaventato alla vista del sangue, Dieyi, tornando alla realtà, si renderà conto che lo spettacolo è veramente terminato e che tutto era stato solo un sogno e che non sarebbe morto per amore. Quello che aveva
vissuto era stato solo uno scherzo della mente, niente di più, ma non gli aveva impedito di rivelare, sorridendo all'amico, quella verità che aveva sempre tenuto celata in sé stesso: - Ho sempre voluto essere Yu Ji! -

A quella eroina aveva dato tutto sé stesso e adesso sapeva con certezza che quella con Xiaolou era stata la sua ultima rappresentazione.
Il LIBRO finisce poco dopo con il ritorno di Dieyi a Pechino e la dichiara
zione del 26 settembre 1984 che Hong Kong nel 1997 sarebbe tornata alla Cina. Ma a Xiaolou non importa, perchè di sicuro, fino ad allora lui, ne era sicuro, non sarebbe arrivato.

LA CRITICA AL LIBRO
Pur essendo scritto bene ed essendo un ottimo soggetto che attraversa mezzo secolo di storia cinese, questo romanzo soffre di una pecca evidente tra la prima e la seconda parte.

Nella prima metà Lilian Lee affronta in modo piuttosto frettoloso l'infanzia e la gioventù dei due protagonisti. Spiega, abbastanza dettagliatamente, l'Opera di Pechino nei suoi retroscena e nei suoi fasti, ma non si sofferma chiaramente sul periodo storico, sulle influenze che si ripercuotono sul teatro e la cultura degli anni 20.
La narrazione va avanti solo come una mera e superficiale cronistoria, senza né approfondimenti psicologici, né del pensiero dei personaggi. Uno di questi ultimi che patisce di più è quello di Juxian, unica figura femminile; mai predominante, si, ma mai veramente delineata con precisione.
Nella seconda parte poi, il romanzo prende un'altra piega.
Siamo negli anni della dittatura maoista. Tutt'a un tratto Lilian Lee si profonde in dovizie di particolari sulla Rivoluzione Culturale e sulle assurdità e le atrocità che commise, andando avanti con la morte di Mao, nel 1976, il processo alla vedova, fomentatrice della Rivoluzione e dei principi del Libro Rosso, fino ad arrivare alla dichiarazione, nel 1984, della resa di Hong Kong da parte degli inglesi.
E' come se la scrittrice, in questo romanzo, abbia voluto dar prova della sua conoscenza del teatro dell'Opera di Pechino, facendo, al contempo, una denuncia delle atrocità del periodo maoista, sicuramente vissuto in prima persona, visto che i suoi primi scritti sono comparsi sin dal 1976. Ed essendo nata ad Hong Kong, ha voluto mettere in evidenza il contrasto pacifico della colonia inglese di quegli anni col resto della Cina.

Il GIUDIZIO su questo libro non è del tutto positivo. Pur essendo scritto in modo piacevole e scorrevole, non è molto profondo quanto il film lascia presupporre a chi, come me, è capitato di vedere prima quello.
E' pur sempre un soggetto interessante e dall'argomento affascinante e insolito.

IL FILM
Interpretato magistralmente da tutti e tre i protagonisti, questo film
è davvero un grande affresco sociale. Il merito maggiore, è ora di dirlo, va alla grande regia di Chen Kaige, antagonista dell'altro grande regista della cinematografia cinese odierna, Zhang Yimou.
Questo splendido film, il quinto del regista, oltre ad aver vinto la Palm
a d'oro nel 1993 al Festival di Cannes, come abbiamo detto all'inizio, ha vinto anche il Golden Globe come miglior film straniero e ha avuto due nomination all'Oscar come miglior film straniero come migliore fotografia.
La critica ha osannato questa rappresentazione artistica come "una metafora della vita viss
uta e il merito del regista è stato anche quello di regalarci memorabili e suggestive sequenze da vero cinema d'autore, dallo splendore estetizzante e magniloquente" (Ezio Leoni).
Questo meravglioso film, paragonato a L'Ultimo Imperatore di Bertolucci per "il gusto decorativo sfrenato", ha cambiato la storia del cinema orientale, consacrando alla fama internazionale uno dei più raffinati e apprezzati autori del cinema asiatico.
A chi non piace questo stile cinematografico, né il genere, troverà questo film prolisso e pesante, se non interminabile, per questo, pur consigliandolo a tutti, è un film adatto a un certo pubblico e ad un certo gusto, che ama, prima di tutto, la cultura e la storia cinese. Non aggiungo altro.

La biografia di Chen Kaige e la sua cinematografia è ormai straconosciuta e a disposizione in internet, per questo non mi è sembrato opprtuno scrivere su di essa.

CENNI SULL' OPERA DI PECHINO
L'Ope
ra di Pechino ha le sue origini all'inizio del 1800. E' una sintesi di diversi stili etnici che affondano le loro radici in una tradizione millenaria.
Negli spettacoli di questa forma d'arte teatrale è visibile la forza di
una storia antichissima, visibile sul pesante trucco basato sul bianco, il rosso e il nero, giocati fra loro per creare sul viso delle attrici (e dei dan di una volta) un'espressione misteriosa, tra l'infinitamente dolce e il minaccioso.
Nel film Chen Kaige ha sapientemente mostrato intere sequenze svolte nei camerini degli artisti, quando si applicano il pesante trucco o si vestono con i loro costumi multicolori, o mostrano le loro tecniche di recitazione.
"La forza dell'Opera di Pechino - scrive Enrico Pan su La Nuova Sardegna (22-12-95) -, è tutta nella tradizione. Una tradizione che si fonda sulla straordinaria versatilità di questi artisti che sono attori, ma, allo stesso tempo, acrobati, danzatori, mimi e, all'occasione, anche cantanti...frutto di una preparazione fisica e mentale che deve essere maniacale" (come ci hanno dimostrato Lilian Lee e Chen Kaige). Sta in questo, secondo me, il merito maggiore della scrittrice e del regista: aver portato, alla luce del grande pubblico internazionale, una delle forme artistiche teatrali più alte e più faticose della Cina.
Forse si spiega così il motivo per cui un grande autore di teatro come Bertold Brecht, fosse rimasto tanto affascinato dall'Opera di Pechino, che aveva visto a Mosca nel 1935.

La mia recensione finisce qui, inserendo solo un ultimo particolare riguardante l’attore che interpretò Dieyi, Leslie Cheung,
Il versatilissimo attore/cantante è morto suicida nel 2003, lanciandosi dal balcone di una camera d’albergo di Hong Kong, quasi presago, dieci anni prima, ai tempi di ADDIO, MIA CONCUBINA, nel 1993, di ciò che gli riservava la sorte.
Nel film, non a caso, gli era stata affidata una parte costruita quasi su misura, quella della concubina, grazie al suo aspetto angelico e alla sua straordinaria voce, di cui si può apprezzare la bellezza durante i titoli di coda. Peccato, perdere un così bravo artista!

Bene, il mio “papiro” termina qui. Sta a voi ora scegliere se leggere il libro o vedere il film per primo. Intanto, buona lettura e buona visione.
Alla prossima.

martedì 13 maggio 2008

Il Maestro di Strada


LA SOPRASTANTE FOTO E' PRESENTE NEL BLOG DELL'AUTORE DI QUESTO LIBRO, IL DOTT. MARCO ROSSI DORIA : http://marcorossidoria.blogspot.com.

IL MIO POST
Questo, ormai, famoso libro pubblicato nel 2000 e ristampato nel 2002 da L'Ancora del Mediterraneo, riepiloga le esperienze di Marco Rossi Doria, l'autore, avvenute nell'arco di un ventennio di pratica professionale, in qualità di maestro elementare, svolta in diversi posti, toccando perfino l'Africa. Questa sorta di antologia narra le sue principali esperienze da maestro elementare, prima, e di maestro di strada, po
i, esperienze durante cui Rossi Doria si è fatto le "ossa" partendo volontariamente e iniziando, praticamente da zero, dalla nativa Napoli, città dove ha avuto, sin da principio, un gran da fare, e che lo ha visto tornare, dopo anni di latitanza, per intraprendere un nuovo importante progetto, tuttora attivamente in corso, "CHANCE - Maestri di Strada".

DI MESTIERE FACCIO IL MAESTRO è, dunque, un ripensamento della relazione pedagogica adulto-bambino, pur attraverso il racconto delle esperienze avvenute lungo quel ventennio da Rossi Doria, il quale è figlio dell'inesauribile Manlio Rossi Doria, agronomo, professore universitario e senatore socialista che lottò contro lo strapotere della Federeconsorzi attraverso l'Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, di cui era presidente.
Lo stesso sp
irito combattivo di Manlio è stato ereditato dal figlio Marco, il quale, però, se il primo lo indirizzava ai contadini e i lavoratori della terra, affinché una riforma agraria adeguata restituisse loro la giusta dignità, il secondo la indirizza verso l'insegnamento, vissuto come una vera e propria missione.
L'insegnamento di Rossi Doria padre al figlio si orienta
verso i bambini delle scuole elementari e dei quartieri spagnoli di Napoli, dove si svolge il progetto CHANCE, appunto.

Il libro si apre con la prefazione di Tullio De Mauro, attualmente prof. ordinario di Linguistica generale alla Sapienza di Roma e già ministro della Pubblica Istruzione.
Tra un inedito e scanzonato aspetto di sé da studente di prima liceo e altri fondamentali ricordi, De Mauro traccia una panora
mica di ciò che Rossi Doria propone nel libro, ormai divenuto un classico nel campo dell'insegnamento, e che ogni insegnante dovrebbe aver almeno letto.
E' affrontato, infatti, il concet
to di empowerment, definito come “conferimento del potere di saper fare qualcosa” (p. 6), e che tutto il libro, oltre che tutto il lavoro dell'autore, è basato su questo concetto che” dovrebbe essere l'obiettivo di chi pretende di insegnare, perché “l' empowerment”, continua De Mauro, “è la pietra di paragone di un buon insegnamento” (ibidem). E fa notare ancora: “in queste pagine Marco Rossi Doria non si stanca di ripeterci che…veri e propri skills life li ha anche il più disgraziato e opaco e riottoso giovanotto mascalzone dei quartieri spagnoli o Portici, e di fare leva su quei powers reali per trascinarli sulla via della ripresa e conquista di altri e più complessi powers”, (p. 8).
Ho trovato molto uti
le leggere questa interessante introduzione spaziante sul contenuto globale del libro, e molto più, è stato il rileggerla alla conclusione, perché mi ha permesso di integrare bene i passaggi sui punti focali quali l'empowerment e le life skills, cioè i comportamenti positivi, mediante i quali è possibile affrontare le sfide della vita.
L'esperienza che Marco Rossi Doria ci presenta nel libro non inizia dal principio della sua carriera di maestro quando, giovane ventunenne, si mise ad insegnare lasciando inconclusi i suoi studi universitari, ma da una "parentesi" vissuta nel 1988 quando, per motivi di salute, si era trasferito in Sudan dove, pur continuando a insegnare, aveva potuto vivere quel periodo come una pausa di riflessione su tutta la sua vita, sul suo lavoro e sui motivi che lo avevano spinto ad intraprendere un "mestiere" così delicato decidendo subito che “l'età dell'indeterminatezza, che invece tutti i miei amici prolungavano, era già conclusa” (p. 30).
A questo interrogativo
e al perché ha “voluto subito decidere, senza alcun dubbio…che per fare bene in un mondo ingiusto non serve quasi più la politica…e che invece ci vuole una sorta di testimonianza etica, perseverante ma costituita dalle azioni pratiche di un mestiere, quotidiane, minute, ripetute”, (p. 30), l'autore che è figlio, come ho già detto prima, di un famoso personaggio intellettuale, antifascista, meridionalista e di un'ebrea ungherese, alto-borghese di città (rifugiatasi in America durante l'adolescenza per sfuggire alla shoa e “ritornata a vivere per sempre in una città disastrata del sud dell'Europa…divisa da una cortina di ferro, con la sua città dell'infanzia inesorabilmente dall'altra parte di quella cortina” (ibidem) ), lo spiega chiaramente poco dopo, anticipando che certe domande, ad es., su quali motivazioni spingono a intraprendere questa professione o quanto e quali “storie di famiglia, dei fatti capiti o non capiti” (p. 31), degli anni d'infanzia, lo hanno indirizzato verso il mestiere di maestro “valgono per tutti…è certo: ognuno ha la sua storia e, nel nostro mondo, in cui è possibile scegliere, ogni storia di mestiere ha una qualche corrispondenza più profonda con le persone che l'hanno scelta”, (p. 31).

UN RIESAME DI COSCIENZA
Perché, quindi, ci si trova bene a fare l'insegnante? Per Rossi Doria l'occasione di permanere su un altopiano sudanese, per un certo periodo, in una scuola italiana, per insegnare “a bambini piccoli italiani e non, educati alle buone maniere che sono ospiti qui e che nulla hanno a che fare con il mondo e con la vita di Ephraìm”, (p. 28), è motivo di riflessione sui dodici anni già trascorsi da maestro. Riflessione scaturita dalle differenti realtà riscontrate nettamente diverse da dentro la scuola protetta dalle sue mura rassicuranti, e da quello che è, invece, fuori di esse con il suo paese, di religione musulmana, i suoi abitanti, i suoi mercati, i suoi bambini, come Ephraìm Naana, il protagonista dell'osservazione di Rossi Doria, un ragazzo tredicenne, nero come l'ebano che ha la fortuna, come pochissimi nel suo paese, di lavorare al mercato come garzone di frequentare la scuola, apprendere sufficienti nozioni per poter gestire il suo lavoro e la sua vita.
Da piccolo Ep
hraìm aveva frequentato la scuola evangelica dove aveva appreso le prime sufficienti nozioni. Sufficienti però, non esaurienti, perché a detta del ragazzo stesso, il modo d'insegnare, secondo il suo punto di vista, era soddisfacente in tutte le materie, tranne che in matematica, presso la scuola degli evangelici, era “stupida come le rane che stanno ferme nel fosso per farsi catturare: tabelline e calcoli senza geometria con le cose spiegate tutte prima, senza quesito e senza un dubbio solo, niente formule dirette né inverse da imparare a memoria per collocare aree e volumi, niente parallelogrammi…niente radici quadrate né cubiche, niente algebra con le lettere…nessun teorema, …niente…senza dover scoprire né osservare né scrivere i ragionamenti per arrivare alla risposta -come invece vuole la scuola dell'islam dove vado io. Il mio maestro a vedere quelle cose matematiche degli evangelici ne riderebbe per sei giorni”, (pp. 26-27).
Infatti, la suddetta affe
rmazione dello sveglio Ephraìm fa coerentemente da pendent ad un'altra affermazione inserita un paio di pagine prima, nel libro: “Alla mia scuola il maestro di Corano è anche quello di matematica che comprende la geometria, l'aritmetica e l'algebra. Queste due materie che sono lo studio del Corano e lo studio della matematica, lui le mescola…Noi apprendiamo insieme il Corano e la matematica; ecco ti faccio subito l'esempio (Ephraìm si rivolge a Marco Rossi Doria). Sempre una sura a memoria, pure scritta a memoria, e la sura ha il suo numero; noi prendiamo le cifre di questo numero, che è indicato nel libro, le mescoliamo, poi subito dobbiamo eseguire moltiplicazione, divisione e tutti gli altri calcoli”, (pp. 22-23). Per interrogare, questo perspicace insegnante, continua il ragazzo, “ci chiama uno a uno… Il maestro dice:-la sura diciotto, parla tu, Ephraìm - Perché noi dopo dobbiamo scrivere la sura ma per prima cosa la dobbiamo declamare. Ma ancor prima di reclamare…rispondo così: - diciotto è il numero della sura, diciotto posso dividerlo in parti uguali per uno, per due, tre, sei, nove… Allora il maestro mi chiede di eseguire subito le moltiplicazioni a mente fra tutti i numeri per cui il diciotto della sura è divisibile… “, (pp. 23-24).
Anche nel lontano Sudan, Rossi Doria ha riscontrato i difetti di un metodo che non funziona, contrariamente ai pregi di un altro attuato dall'insegnante musulmano, che ama chiaramente il suo lavoro e si applica col cuore e con la mente per condurre agli obiettivi prefissati, ragazzi meno fortunati che pure hanno la fortuna, come Ephraìm, di lavorare e avere il consenso del padre di frequentare la scuola, con tutti i sacrifici che comporta.


L'INSEGNAMENTO COME UNA VOCAZIONE
Il sacro fuoco della vocazione all'insegnamento, la consapevolezza che c
i rende certi di non aver sbagliato mestiere è chiaramente e ampiamente spiegata dall'autore: “Quando accade … ci si presenta un'occasione, un'opportunità di guardare meglio in noi stessi. Se lo facciamo, è un'opera interna che ha inizio: davvero cerchi di sapere …perché hai preso una strada e non un'altra a questo mondo…Perché educare è un mestiere dannatamente serio e che ha a che fare molto seriamente con chi siamo: si tratta prioritariamente di incontro, di relazione umana e la qualità dell'incontro tra chi insegna e chi impara, tra chi educa e chi è educato è certamente biunivoca, ma soprattutto ha a che fare moltissimo con quel che, da dentro, ci ha spinto a insegnare. Davanti ai più piccoli e ai più giovani, presto o tardi, per quanto si voglia o si possa rimandare la domanda, ci si trova disarmati come davanti a sé stessi e ci si chiede di nuovo…chi sono io?”, (pp. 32-33).
Le soprastanti parole di Rossi Doria, secondo me, sono una
lucida analisi di riflessioni che ogni insegnante e, in genere, ogni educatore, si dovrebbe porre, anche perché la domanda "perché ho scelto di fare questo mestiere?", è una richiesta di chiarimento con sé stessi che tutti si sono posti, prima o poi, di qualunque mestiere scelto si tratti. E ha ragione Rossi Doria a far notare che educare è un mestiere maledettamente difficile!

Da parte mia, in qualità d'insegnante io stessa, ritengo che per svolgere una professione del genere bisogna per forza sentire la vocazione analogamente a quella religiosa che richiama tanti a pronunciare i voti e a dedicarsi ad attività missionarie, un po' com'è, in questo caso, l'episodio lavorativo di Rossi Doria in Sudan. E lo dimostra assai meglio quando, poche pagine dopo, l'autore descrive una delle sue prime esperienze da maestro a Napoli, nel 1981, quando, privo di esperienza, ad appena 22 anni, col solo diploma magistrale, si trovò di fronte a responsabilità enormi in una scuola di 1700 alunni e 80 insegnanti, con un direttore vecchio stampo, ligio al dovere, come ai vecchi tempi, nonostante fosse affetto dal morbo di Parkinson. Maestro in una città come Napoli, dove “tutte le cose sembrano ancora rilucenti ma il più delle volte appaiono come sono: mal messe e mal poste. Mal messo e mal posto ma tutto, proprio tutto: linee aeree acquedotto manto stradale insegne palazzi alzati da venti anni senza alcun dannato criterio, dovunque tu ti giri mal fatto e mal posto lo vedi e lo rivedi…” (p. 70).
Mal messa e mal posta è anche la grande scuola ricavata da un convento, due appartamenti e un vecchio pastificio. Tutti luoghi di una città, Napoli che, come tante altre “si attrezzano per sopravvivere” (p. 72), dove le mamme, le nonne giovani, le zie degli alunni di Rossi Doria sono “tutte vestite di nero”, molte delle quali rimaste sole nei loro letti matrimoniali “per i morti ammazzati” entrati “nella loro vita all'improvviso senza appello” (ibidem).
Una scuola in una Napoli simile a un presepe d'alluminio, ma che non porta ruggine, ed è governata dall'eroina che farà cadere chissà quanti dei piccoli alunni di Rossi Doria, insieme ad una precoce sigaretta.
Una scuola in cui il
direttore è attento a guardare l'arrivo puntuale degli insegnanti, che firmino in orario e con la penna nera.
Una scuola il cui segreta
rio ossequia molto, mette le carte a posto per risultare a posto, ma sotto sotto “fa pure i suoi commerci come è per forza di cose per tanti e tanti ancora negli uffici pubblici”, (p. 78), dove molto “lo fa il direttore e moltissimo lo fa il segretario” (p. 79).
Una scuola che impone al giovane maestro, alla sua prima esperienza, di perdere subito l'innocenza e conoscere immediatamente il dispiacere e la sorpresa, a dettare i pensieri all'autore che, per far ordine in questo caos di pensieri non vede altro modo che comprare un taccuino e scriverli assistendo, impotente, ogni mattina, alla perdita dell'innocenza in un luogo dove il segretario, il collega amico del segretario, la supplente, gli appli
cati di segreteria, i bidelli e le colleghe sono tutti adulti da cui egli deve prendere le distanze, di cui deve cercare di carpire “i veri segni di come sono queste persone adulte che riempiono di parole di atti di gesti un luogo che dovrebbe essere pensato e nutrito di volontà rivolta verso i bambini o almeno” (p. 79), come aveva inteso, prima di metterci piede, Rossi Doria.
Una realtà sfalsata e corrotta, quindi, quella che l'autore si è trov
ato di fronte, ma che, nonostante tutto, quando è in classe con i suoi piccoli allievi di prima, una classe numerosa, più o meno come quelle attuali, di 31 alunni, con i loro grembiulini bianchi e il loro fiocchetto azzurro, si lavora e si dimentica tutto ciò.
Una classe in cui c'è Patrizia, una bambina tanto bella che, a detta di sua madre, “ha le mosse” (p. 102), cioè è epilettica, la quale si va ad aggiungere ad una classe di 30 piccoli scugnizzi che “sembrano pronti davvero ad un assalto…che già si spingono si dicono le parole, parolacce terrificanti, due terribili salgono sui banchi uno accenna a un calcio” (ibidem). Ed è sol
o il primo giorno!
Sarà in mezzo a questa bolgia di piccoli selvaggi che Marco Rossi Doria dovrà insegnare, come riferisce il bidello Eduardo, detto il vampiro, uomo corrotto e sfaccendato, prima di tutto l'italiano perché “non è la loro lingua materna e devono imparar la lingua santa d'Italia a leggere e a scrivere e a far di conto e poi viene tutto il resto” (p. 106).
E, ancora, l'autore si renderà conto che, nonostante le ansie sul come si deve fare scuola o come si dovrebbe fare, racconta delle sue inadeguatezze, perché forse non è all'altezza della situazione, per le invidie e i sospetti che gli occhi degli altri colleghi gli trasmettono quando sono puntati addosso, l'autore scopre/scoprirà che, a furia di chinarsi, di accovacciarsi all'alte
zza dei bambini, tanto più piccoli, il maestro si mette sempre più “con gli occhi di fronte agli occhi a turno di ognuno ed è lo sguardo alla stessa altezza che costruisce pazienza, aiuta a portare le cose a compimento è il fare le cose da vicino; sì che sono grande e che sono più alto ma mi metto qui ora: è questa la vicinanza che permette di pacare il moto dei loro corpi e la voce che grida” (p. 109). E' un farsi piccolo tra i piccoli, un tornare indietro nel tempo, della propria memoria, un rinverdire i ricordi e le emozioni di un tempo, quando si aveva la stessa età, quando la mamma ci accompagnava a scuola, quando in prima piangevamo perché non eravamo ancora abituati alla disciplina e a star nei banchi, fermi, senza giocare, zitti ad ascoltare la maestra per apprendere, studiare, ecc.

IL CUORE DELLA SITUAZIONE
E' qui che Rossi Doria interviene, nel vivo della situazione, e ricorda al lettore che in molti sono gli insegnanti che non credono più, “ci siano strade predefinite, precetti sicuri e rassicuranti” (p. 57). Che servono nuove categorie di riferimento come quella dell'empowerment, appunt
o, la quale altro non è che “un costrutto complesso che indica l'insieme di conoscenze, di modalità relazionali, di competenze che permette a individui e a gruppi di porsi obiettivi e di elaborare strategie per raggiungerli utilizzando le risorse esistenti. Questa definizione transculturle”, continua Rossi Doria “ci suggerisce gli ingredienti necessari per mettere in moto un processo attivo, teso ad affrontare una situazione di disagio… e ci dice che dobbiamo sempre vedere i bambini e i ragazzi come possibili protagonisti, risorse partecipanti attive e creative e non come oggetto di misure e di dispositivi. Di più: dobbiamo noi stessi ogni volta ideare, costruire e fabbricare insieme ai bambini e a i ragazzi un campo di azione comune, un power, un potere attivato insieme” (pp. 57-58). In pratica, il concetto di empowerment non cancella la “funzione educativa adulta”, (ibidem), ma sprona gli educatori a ridursi sempre, in ogni caso, a misura dei bambini con cui sempre, e in ogni caso, hanno a che fare, con quello che essi sono e che esprimono, senza tener conto di piani e idee stabilite prima del lavoro educativo vivo.
L'empowerment, propost
o da Rossi Doria, si propone di agire sulle risorse della relazione, sui movimenti continui di competenze e conoscenze, in un continuo progredire nella ricerca della soluzione adeguata ai problemi che si presentano via via che si procede in un vero e proprio “work in progress continuo” (p. 58).
Una probabile proposta per procedere, secondo la logica dell'empowerment, poi, l'autore ce la indica a p. 61, quando propone che “innanzi tutto bisogna poter coinvolgere emotivamente i ragazzi: la relazione in qualche modo precede la comprensione o quanto meno la condiziona potentemente… se la relazione educativa prende a funzionare, anche il curriculare funziona meglio e se nel
gruppo-classe si instaura una buona relazione tra i pari l'effetto domino nei processi di apprendimento si duplicheranno e diventeranno sempre più rapidi… E' la relazione la chiave di volta, il centro. La logica dell'empowerment dà gli ingredienti, aiuta ad attivare le risorse, permette di dare un ordine di priorità ma a partire dalla relazione” (pp. 61-62).
Ed è proprio questo che
Rossi Doria fa con la sua Associazione, posta nel cuore dei quartieri spagnoli, i quartieri di malaffare di Napoli dove, dopo anni, l'autore è tornato, nel 1998, più che mai convinto a svolgere il suo operato, la sua "vocazione", chiaritasi, ormai, come quella di "maestro di strada" di questi quartieri dove però non regna solo il malaffare, ma è presente anche una robusta tradizione produttiva, oltre che una rete di servizi che “vivono fianco a fianco a tutto il resto” (p. 163).
Questa Associazione dei "Maestri di Strada" che ha promosso, grazie a
Rossi Doria, il progetto CHANCE, ha sede in un'unica stanza aperta sulla strada, sulle cui pareti ci sono dei manifesti sotto vetro e al cui ingresso c'è una cucina. E' la sede dell'Associazione di volontariato a cui l'autore si è rivolto poiché è conosciuta da tutto il quartiere visto che si occupa delle piccole fabbriche, promuove lo sviluppo e poi ne cerca le vie. “Ha i presupposti per farlo”, fa notare Rossi Doria. “Le persone che l'hanno fondata sono stati per anni, per scelta, operai di una fabbrica di borse del quartiere. Sanno di cosa parlano… Sono (quelle del quartiere) sapienze manifatturiere anch'esse resilienti e perciò vitali, capaci di crescere. L'Associazione vuole assisterli in questo” (p. 164).

Resilienza. Un altro termine, proposto nel libro, da porre in risalto. “La virtù più grande dei bambini e dei ragazzi…Un verbo latino che vuol dire rimbalzare, saltare indietro… La fisica ci narra che la resilienza è il rapporto tra il lavoro necessario per rompere una barretta di un certo materiale e la sezione della barretta stessa; rappresenta la proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi. Da qualche tempo la resilienza è diventata una categoria che descrive la capacità degli umani di fare quotidianamente i conti con una situazione esistenziale precaria, allarmante o minacciosa o con uno stato di cose che trattiene lontano da sé le possibilità e le occasioni della vita che invece dà ad altri.
Qualcosa vuole colpire l'animo per spezzarla. E la resilienza è il resistere intenso ma per un attimo solo e il rimbalzare indietro; è la virtù del "risalire" che impedisce che l'anima si spezzi in quel momento e nei tanti momenti che verranno
” (p. 160). Ed è esattamente ciò che fa l'Associazione occupandosi delle PERSONE, col suo "sportello sociale", nell'unica stanza aperta sulla strada, dove entra ed esce, di continuo, gente di tutti i tipi, “da operai, occupati e disoccupati di ogni genere, insegnanti, animatori ed educatori di strada, volontari, sociologi, funzionari, contrabbandieri, scrittori, fotografi, stranieri e folli di quartiere compresi. E bambini e ragazzi. Continuamente. Tanti bambini e tanti ragazzi” (p. 166). A Marco Rossi Doria sembra di aver trovato, qui, il cuore dell'intera Napoli. Un luogo dove l'autore è, a buona ragione, convinto di poter reimparare il proprio mestiere da capo, partendo proprio dal principio, perché è un luogo dove i bambini entrano per attirare l'attenzione o fare sport, dipingere, plasmare o eseguire i compiti che altrimenti non farebbero.
In questa Associazione c'è chi segue e prova a risolvere “pratiche con i giudici, entra in luoghi di detenzione e tiene teso il filo tra l famiglie… chi gira per le scuola, chi per i luoghi di produzione e di commercio che, nel quartiere popoloso e composito, affiancano le attività incostanti e illecite o interrompono…l'assenza disperante di lavoro e di risorse” (pp. 168-169). E' un lavoro costante e giornaliero di "traduzione e mediazione culturale", come lo definisce l'autore, il quale si chiede: “Cosa fa la scuola per costruire un vero incontro, per offrirsi davvero? E' disposto a cambiare linguaggio, ad allargare confini e leggi?” (p.169).
L'aspetto che qui in
teressa Rossi Doria è quello riguardante i bambini e i ragazzi per cui vengono attrezzati, dall'Associazione, palestre e laboratori creativi, corsi di computer, di falegnameria e bricolage, di fotografia, di pallavolo, ginnastica, danza e calcio, oltre che luoghi di studio, dopo la scuola, e di gioco, ogni sera, senza barriere precostituite per l'ingresso a ciascuno: le porte sono aperte a tutti e per l'intera giornata. E' un tutt'uno con la strada, luogo per eccellenza da cui proviene la maggior parte.
Essendoci, poi, delle modalità e delle regole riguardanti lo spazio condiviso, Rossi Doria si domanda a p. 170 se “non potrebbe essere anche la scuola un poco più simile all'Associazione” . E dall'iniziativa che egli stesso ha promosso, sembra di si ed ecco quindi nascere il progetto CHANCE- Maestri di Strada, che intende recuperare gli adolescenti che hanno lasciato la scuola al fine di indurli al recupero di un percorso di istruzione, accompagnandoli fino alla conquista del titolo raggiunto, com'è il caso della quattordicenne di cui si parla a fine libro, nel capitolo-postfazi
one, intitolato Fuori Tempo Massimo, la quale, al tempo in cui Marco Rossi Doria scriveva, era incinta, ma che grazie alla cura che l'autore e l'Associazione si sono presi di lei, come di altri ragazzi, è riuscita a conseguire la licenza elementare, con tanta fatica, ma anche con gran soddisfazione dei suoi "educatori-protettori". “Conto di stare fuori tempo massimo: il bimbo arriverà”, scrive l'autore, “lei ha preso a quattordici anni la quinta elementare perché l'abbiamo tirata di forza, forse non verrà più da noi, quel che si poteva fare è stato fatto, quante volte l'abbiamo inseguita!” (p. 232).
L'atteggiamento di Rossi Doria, in questo brano, epilogo del libro, è sempre con lo sguardo rivolto alla scuola e a quello che dovrebbe essere, o per lo meno, assomigliare: con l'espressione inglese di learn from good practices, cioè apprendere le buone pratiche, cosa che fanno molto e usano molto le agenzie internazionali di infanzia, compresa l'Associazione, Rossi Doria invita la scuola pubblica a guardarsi attorno e a confrontarsi, p
roprio come fanno le suddette agenzie, per misurarsi e accogliere “cose buone da fuori del proprio bagaglio” (p. 171), per elaborarle creativamente e adattarle al proprio ambiente di lavoro, mediante tentativi e nuove prove, in cui sono insiti, e inevitabili, ma propizi, gli errori.
Col suo progetto CHANCE, Rossi Doria ha dimostrato che, nonostante tutto ciò sia proprio raro a scuola, qualche risultato come la quattordicenne di cui sopra, si è ottenuto, certo a prezzo di continui inseguimenti e di un'inesauribile pazienza.
La proposta esposta nel libro da cui l'autore intendeva partire, riguardava l'obbligatorietà della scuola d'infanzia di almeno due anni, da continuare in un percorso che dovrebbe durare fino ai 16 anni. Ai bambini si prevede, in questa proposta, l'affiancamento di un tutor ad personam, indicato dai servizi sociali del Comune, per fornire uno stabile punto di riferimento adulto, anche in una funzionale realtà di iniziative territoriali, con premi in danaro a chi svolge il proprio compito nei quartieri più difficili.
Maggiore importanza, inoltre, dev'essere assegnata all'insegnante prevalente di classe (nelle elementari) per co
nsolidare una relazione educativa più stabile e definita, perché agisca almeno sulle minime competenze, essendo questa l'età della latenza.
Le classi, aggiunge poi Rossi Doria a p. 192, non devono superare le 16 unità, in modo da consentire il lavoro all'insegnante per consolidarlo, come detto sopra, perché, il più delle volte, le realtà presenti sono spesso bambini e ragazzi incontenibili, che non vanno a scuola per giorni interi, magari solo per un capriccio di ispirazione (“Quella professoressa è brutta e mi a schifo e basta”, p. 202), fino, in molti casi, all'abbandono della frequenza (è il caso dei drop-out, autoesclusisi dalla scuola, quelli più devastatori e disadattati).
Urge, allora, una rivoluzione copernicana con percorsi scolastici che offrano una seconda opportunità, con docenti scelti e che scelgano volontariamente questo tipo d'incarico, dietro cui c'è una “forte formazione, supervisione psicologica, libertà e sostegno finanziario, ma
gari in accordo con il comune” (p. 207).
Le proposte esposte, come
già preannunciato in questo libro, sono state sottoposte all'attenzione del Ministro della Pubblica Istruzione e inserite nel gruppo di lavoro del MIUR, convocato dal Ministero per “contribuire a indicare i criteri della professionalità docente e di un codice deontologico” (fonte: la rete), vista la vasta esperienza, acquisita in venticinque anni, dall'autore, nella scuola elementare, prima, e nell'attuazione del progetto CHANCE, poi, promosso a Napoli da lui e dagli altri maestri di strada. Iniziativa encomiabile e unica nel suo genere.

Mi sento in dovere, per questo, prima di concludere, di augurare buon lavoro al Dottor Rossi Doria e a tutti i Maestri di Strada che collaborano attualmente al progetto.

Maestra Lena.

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Il presente post è un lavoro svolto per l'Università del Sacro Cuore di Brescia.

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La biografia e l'operato del Dott. Marco Rossi Doria, essendo anch'egli un blogger come molti di noi, è rintracciabile al seguente indirizzo: http://marcorossidoria.blogspot.com

lunedì 5 maggio 2008

Il "meme" musicale di Gisella

Cari amici Bloggers, avrete capito, ormai, sicuramente, che non aggiorno il mio blog spesso per mancanza di tempo, per cui oggi colgo l'occasione per presentare un nuovo post poco impegnativo, per ricambiare il meme della mia amica Gisella-Mammagy/ Raggio di sole, rintracciabile a questo indirizzo: http://gy-raggiodisole.blogspot.com/ ma anche perchè non mi porterà via troppo tempo. Meglio i "meme", sono più sbrigativi!

Inizio dalla cantante che mi ha fatto sognare più di tutte le altre messe insieme:
BARBRA STREISAND, con uno dei brani più belli e indimenticabili che abbia mai presentato nella sua carriera. E io, da ammiratrice, oltre che da cantante con una voce piuttosto simile, voglio presentarvi proprio questa splendida EVERGREEN, che vuol dire sempreverde, canzone inclusa nel film, molto commovente e romantico, "E' nata una stella", che la Streisand girò insieme al bellissimo Kris Kristofferson, nel 1976, tratto dall'omonimo libro di Alexander Edwards.
Nel video che vi presento appare anche lui in scene tratte dal film stesso.
Chi volesse curiosare tra i video a disposizione di questa canzone, sappia che c'è una versione in francese ed un'altra in italiano, cantate dalla stessa Streisand.
Ma basta chiacchiere, guardatevi il video perchè, per me, questa splendida canzone ha un significato particolare, legato ad un ricordo ancor più particolare.

Signore e signori ecco a voi Miss Barbra Streisand!!!


Bello vero? Adesso, se Gisella me lo permette, visto che l'iniziativa è partita da lei, vorrei aggiungere un altro video, sempre della Streisand, ma con Robert Redford, tratto da un altro splendido film, "Come eravamo", che in inglese s'intitola THE WAY WE WERE. Anche questo legato a dei ricordi particolari di tanti anni fa.

Certo si dovrebbe di entrambi vedere i films, ma qui accontentiamoci dei videos e della splendida voce di Barbra, che vi farà ascoltare:

THE WAY WE WERE

Splendida vero?
Prometto, in un altro post parlerò solo della mia Barbra e delle sue canzoni più belle, come queste ed altre.

Ma ho cinque canzoni a disposizione, giusto? Allora proseguiamo con un gruppo che adoro, che ho adorato quando ero piccolissima e non capivo un'acca d'inglese...

Signori e signori ecco a voi gli ABBA con DANCING QUEEN, la danza regina! (l'immagine iniziale del video non era disponibile)

http://smotri.com/video/view/?id=v3841291bc

Meravigliosa Danza Regina...Anche per i mitici Abba ci sarà un post a parte. Promesso. E per chi non capisce l'inglese, perchè non lo conosce, non l'ha studiato, non credo abbia molta importanza, poichè questo quartetto è talmente famoso, che sarà difficile non ricordarlo, almeno a chi negli anni '70 era adolescente...io non lo ero, ma da buona cantante con orecchio assoluto che si rispetti, la musica mi piaceva, e anche troppo!

Allora, siamo al quarto video. Chi scelgo? Naturalmente Mario! Mario Biondi, l'artista jazz del XXI secolo, per eccellenza, che vi farà ascoltare:
THIS IS WHAT YOU ARE, questo è quello che sei! Perchè, Mario, sei la perfezione assoluta fatta musica, ecco che cosa sei! Una meraviglia del creato, già solo per quella black voice che ti ritrovi! In questo video dal vivo lo dimostri pienamente!

THIS IS WHAT YOU ARE è il singolo di promozione di Mario Biondi, il brano con cui si è fatto conoscere al "grande" pubblico, per modo di dire, perchè questo grande artista, pur essendo di un'eccezionale bravura, è sempre limitato alla ristretta cerchia dei cultori di un genere troppo selezionato...lo riconosco!


Per questo il quinto e ultimo video lo dedicherò ad un'altra artista di eccezionale bravura: WHITNEY HOUSTON!
Non mi dite che non ve la ricordate! E' talmente brava, bella e perfetta che solo per la sua perfezione fisica si fa ricordare, anche se ultimamente si è fatta ricordare per ben più tristi cose...
Ma qui c'interessa la cantante che è stata e che tornerà ancora ad essere, sicuramente! Ascoltatela quindi in uno dei suoi pezzi migliori, quello forse per cui è sicuramente più ricordata: I WILL ALWAYS LOVE YOU, io ti amerò sempre (quante volte ho cantato anche questo pezzo, che mi riesce così bene!)



Bello vero? Straordinario direi, anzi, con quella voce auenticamente black!
Prometto, anche su Whitney farò un post personale, perchè è troppo brava!

Cara Gisella e cari amici, il mio meme finisce qui. Lo so, ho inserito solo brani in inglese, ma consentitemelo, per questa volta, poichè io sono principalmente stata una cantante anglofona. La prossima volta vi imbastirò su un postazzo con certi cantantazzi italiani da farvi strappare i capelli per la bravura e raffinatezza! Pensate solo a nomi come Mia Martini, i Dirotta su Cuba...basta, non parlo più. Alla prossima.
Buon ascolto a tutti!